#Oltre n°4/2024 | Una tazza di tè per Putin e Netanyhau

#Oltre n°4/2024 | Una tazza di tè per Putin e Netanyhau

Una tazza di tè per Putin e Netanyhau

La storia si scrive attorno a una tazza di tè, una bevanda che non è mai passata di moda e che trasmette calma, tradizione, voglia di parlarsi senza alzare la voce, rilassati, pronti ad ascoltare, non solo a spiegare le proprie ragioni. Prima e dopo si può anche fare la guerra ma in quella parentesi sospesa nel tempo in cui i grandi del mondo si sono fermati per bere un tè è sembrato che parlassero la stessa lingua, convinti di andare d’accordo, di vivere in pace e di trasformare il pianeta in un luogo dove regna la concordia assoluta.

Quante tazze di tè ci vorrebbero in quest’epoca di guerre disumane? Tante. E forse non basterebbero. Ma la speranza, come dice l’antico adagio, è l’ultima a morire quindi è giusto dare una chance a quella bevanda magica che, nel corso della storia, ha fatto miracoli. La tradizione britannica conferisce al tè questa capacità taumaturgica, quindi sarebbe bello mettere al tavolo, in questo momento, i capi di Hamas con Benjamin Netanyhau, oppure Vladimir Putin con Volodymyr Zelensky. Chissà cosa ne uscirebbe? Noi siamo sognatori e ci illudiamo che sia una cup of tea a risolvere i mali del mondo. Purtroppo non è così. Potremmo allora proporre le classiche ricette italiane dei tarallucci e vino o della pizza. Ma è difficile ottenere il risultato sperato perché ormai il livello dello scontro e dell’incomprensione è talmente alto che non bastano gli ingredienti del buonsenso per arrivare a una soluzione. Dobbiamo allora accontentarci di sorseggiare un tè guardando la televisione, mentre scorrono le immagini dei massacri, mentre vengono mostrati al mondo i gravi difetti del genere umano.

Passano gli anni, si succedono le epoche ma non c’è verso di comprendere che l’egoismo porta sempre e soltanto alla distruzione. Eppure lo sperimentiamo tutti i giorni. Vediamo i cadaveri del Medio Oriente o i morti sul fronte orientale e non ci domandiamo perché la spirale di violenza continui indisturbata a causare i suoi guasti. Basterebbe fermarsi un attimo. Scendere da quel Treno per il Darjielin che raccontava Wes Anderson nel famoso film che diversi anni fa presentò al festival di Venezia per capire che la vita non è una corsa all’impazzata verso il nulla ma un’avventura magnifica da vivere giorno per giorno. Con calma.
Il riferimento al Darjielin non è casuale. Richiama una delle terre indiane più famose per la produzione del tè nero. Sarà un caso (ma forse no). L’indicazione chiara di quel film è di fermarsi un attimo per riflettere. Sorseggiare quella magica bevanda ci aiuta a tornare in pace con noi stessi. E a capire gli altri. Per smettere – finalmente – di fare la guerra. E non sarà (si spera, un giorno) solo un momento passeggero.

 

#Oltre n°4/2024 | Una tazza di tè per Putin e Netanyhau

#Oltre n°3/2024 | Taglio i baffi o li tengo? Attenzione a non sbagliare

Taglio i baffi o li tengo? Attenzione a non sbagliare

In un mondo che fa dell’immagine il proprio punto di riferimento, il look diventa importantissimo. Come ci si veste ma come ci si pettina o come ci si trucca sono parti indispensabili di un meccanismo di comunicazione in cui tutto conta.

In questo discorso entrano a pieno titolo barba e baffi per gli uomini. Sono sempre di più i giovani che scelgono di non radersi. O meglio di accompagnare la crescita di barba e baffi con sapienti tocchi di rasoio e forbici per renderli confacenti all’immagine che ognuno nutre di sé. È una sfida difficile ma divertente perché testimonia l’evoluzione nello stile degli uomini che non amano più essere degli sciattoni casual ma preferiscono mostrare nel look la loro personalità. Evoluzione positiva, dunque, ma anche impegnativa. Rende evidente una trasformazione di ruolo ma non è che parta dal nulla. Non è vero che l’uomo scopra solo adesso di essere attento al proprio bell’apparire, si accorga di diventare un po’ civettuolo. Lo è sempre stato. Con la brillantina Linetti sui capelli o con mustacci lunghi e curatissimi, ha provato a caratterizzarsi per piacere di più, prima di tutto a se stesso, poi agli altri. Ora siamo di fronte a nuovo cambio di paradigma perché, se i capelli curati e il viso sbarbato, sono andati per tanto tempo per la maggiore, adesso si preferisce mostrare i segni della propria virilità in modo più accentuato. È un modo per dire a tutti: «Ehi, guardate: sono un uomo!». La lettura potrebbe essere calzante in questo periodo di generazione fluida. Un modo per marcare il proprio sesso di fronte alla società, non per far spiccare i difetti dell’omofobia, ma per convincere gli altri (e forse anche se stessi) sulla propria chiara identità. Interpretazione psicologica e sociologica, dunque, rispetto a un look che può avere, però, solo radici estetiche.

Al bando, dunque le spiegazioni profonde, barba e baffi in questo periodo piacciono di più rispetto al viso lindo e pulito. Dunque si segue una moda che permette di accettare meglio il proprio aspetto fisico e di essere più accettati dagli altri.

Che piacciano o non piacciano, comunque, i baffi sono il motivo ispiratore di un libro di Emmanuel Carrère che forse non tutti conoscono (non è tra i più venduti) ma che inquieta alla lettura. Parla di un uomo che si taglia i baffi ma che tutti quelli che lo conoscono, a cominciare dalla moglie, gli fanno notare che mai li ha avuti prima. Risultato: il protagonista va fuori di testa perché, quello che all’inizio può sembrare solo uno scherzo, in un crescendo di nervosismo e tensione, finisce nel peggiore dei modi. Dimostra come il look possa segnare la nostra vita. Nel bene e nel male. Un paio di baffi e una barba da hipster possono fare la differenza. Pensiamoci un attimo, senza (per favore) cadere nella trappola di Carrère.

#Oltre n°4/2024 | Una tazza di tè per Putin e Netanyhau

#Oltre n°2/2024 | Dalle bacche alla carne. L’importante che ci piaccia

Dalle bacche alla carne. L’importante che ci piaccia

Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei. Partendo da questo presupposto fa una certa specie pensare all’uomo delle caverne che aveva un’alimentazione del tutto differente dalla nostra. Bacche, tuberi e persino insetti erano i cibi preferiti da chi viveva nel paleolitico. Da allora ad oggi c’è stata una certa evoluzione. Ogni progresso ha portato a una dieta differente. Dalla condizione di nomadismo, quindi, si è passati alla fase stanziale in cui tutto è cambiato dal punto di vista del cibo. Alla caccia si sono affiancate le attività di coltivazione e di allevamento che hanno permesso ai cavernicoli di evolversi sia nei gusti sia nelle abitudini nutrizionali. Dalle radici e dai prelievi di elementi naturali dalle carcasse degli animali si è così passati a un’alimentazione, almeno alla lontana, più simile alla nostra. Mai, però, è venuto meno un principio che ci accompagna a distanza di migliaia di anni e da quanto facevano i nostri antenati: la ricerca di beni che ci nutrano e ci facciano provare piacere.

L’evoluzione delle diete è ora arrivata al punto che, talmente sono particolari ed elaborate, a volte si perdono di vista questi due elementi cardine. E non va bene. Proprio per questo hanno successo le scuole di pensiero che privilegiano il cibo per il ritorno alle origini e il recupero della natura. In questo contesto va interpretata la sempre più frequente scelta di passare ad abitudini alimentari vegetariane. Lo erano i nostri avi, perché non lo possiamo essere noi? Come si diceva il regime nutrizionale è figlio dei tempi. Stringendo la lente d’ingrandimento su un periodo meno vasto di quello primitivo e arrivando fino ai giorni nostri si comprende, allora, molto bene che scegliere la carne è un retaggio figlio del boom economico, emblema piuttosto scontato del consumismo imperante. Lettura ideologica della realtà o spiegazione vera di ciò che è avvenuto dal dopoguerra ad oggi? Come sempre accade, la verità sta nel mezzo. Da una parte c’è il condizionamento sociale, dall’altro si pone un dato oggettivo che tutti noi sperimentiamo quando andiamo a tavola: la carne è buona, perché dobbiamo privarcene? Si torna, dunque, da dove si è partiti: l’alimentazione serve per il sostentamento ma pure perché ci dà piacere. Se la carne risponde a questo nostro desiderio possiamo continuare a mangiarla. Con misura, ma senza auto-imporci diete che non fanno per noi. Se invece abbiamo deciso di essere come Socrate o come Plutarco, come Leonardo o come (in tempi vicini ai nostri) Albert Einstein, allora, dedichiamoci a ciò che già i cavernicoli avevano sperimentato. Ovvero: vegetali di tutti i tipi. E (forse) anche gli insetti. Dicono che siano di moda (e ne abbiamo già parlato in qualche numero fa di Oltre) perché, come ci ricordano sempre gli antichi: de gustibus non disputandum est. Ecco.

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#Oltre n°1/2024 | Quando i social diventano un’occasione di conoscenza

Quando i social diventano un’occasione di conoscenza

I social fanno parte della nostra vita. Inutile negarlo. Inutile e controproducente scatenare delle battaglie contro. Inevitabile sarebbe la disfatta.

Di questi concetti sono convinti un po’ tutti, anche le schiere di boomer che si adattano alla bisogna e spesso fanno dei gran disastri. Ma va bene così. Non si può imparare a nuotare senza buttarsi in acqua, come non è giusto e non è corretto sentenziare su un mondo che non si conosce. Quello che fa la differenza, come per tutti gli strumenti creati dall’uomo, è l’uso. Anche l’automobile è un pericolo se si va a 200 all’ora in una strada a curve (ammesso che si riesca). Così i social diventano rischiosi – anzi dannosi – se l’uso viene trasformato in abuso, se non si comprende il confine che esiste tra mondo reale e virtuale, mischiando tutto quanto.

Il gallaratese Marco Pangallo – alle pagine 8 e 9 di quest’edizione di Oltre – dimostra come si possano utilizzare i social per portare un mondo considerato per gente di una certa età ai più giovani. Operazione che dimostra come, nella nostra società, spesso il medium (come lo chiamava il semiologo Marshall McLuhan) è il messaggio. Ovvero, il contenuto (in questo caso l’opera lirica) assume rilievo nel momento in cui viene veicolato con il mezzo giusto (in tal caso su Instagram). In apparenza, tutto questo meccanismo – al giorno d’oggi – sembra scontato, quasi ovvio. Ma non è così. Tanto è vero che, quando l’influencer gallaratese ci ha pensato e lo ha messo in atto, subito ha attirato schiere di followers. Che, volentieri, si avvicinano a una realtà abituata ad altri metodi di comunicazione. Avviene per la lirica, ma può essere valido anche per altri campi.

Ritorna, dunque, la domanda sull’uso dei social e qui si entra nel vivo della questione perché non è che tutti quelli che frequentano Instagram lo fanno per conoscere e per capire, perché amano la lirica o perché vogliono entrare in questo magico mondo grazie ai consigli di Pangallo. Spesso ha la meglio la sola componente di leggerezza, Ovvero, si frequentano i social per passare il tempo. Ci sta, a patto che non diventi un’abitudine. Essere rimbalzati da un contenuto all’altro rischia, infatti, di fare male ai meccanismi recettivi del nostro cervello (che disimparano l’attenzione) e di creare dipendenza. Dunque, cari boomer, non resta che affidarsi a Instagram a piccole dosi e su contenuti che non inquinino la nostra sfera cognitiva. Consiglio che vale per chi ha una certa età ma pure (soprattutto) per i giovanissimi che sono convinti di sapere tutto ma, magari, non si rendono conto del rischio di guidare l’auto a 200 all’ora. Basta spiegarlo loro. E farli innamorare più che dei prodotti che pubblicizza Chiara Ferragni dell’opera lirica presentata da Marco Pangallo.

 

#Oltre n°4/2024 | Una tazza di tè per Putin e Netanyhau

#Oltre n°44/2023 | Se Natale non ti piace festeggia il 23 dicembre

Se Natale non ti piace festeggia il 23 dicembre

Tutti zitti perché sta per arrivare il periodo più bello (o più brutto) dell’anno. È ormai iniziato il conto alla rovescia verso Natale che porta con sé diversi altri giorni di festa, a partire dalla Vigilia. Che è poi il momento più importante di questa divertentissima (o scocciantissima) maratona di amici, parenti, mangiate, spumante, panettone, pandoro, lustrini e lucine che ormai vanno di moda.

La Vigilia è sempre il meglio perché è come la vita: ti aspetti chissà cosa, poi ci sei dentro e ti accorgi che sono più le delusioni delle soddisfazioni. Sarà perché veniamo da una formazione cattolica che ci ha inculcato in testa sin da bambini che siamo «esuli figli di Eva, gementi e piangenti in questa valle di lacrime», ma spesso siamo capaci di assaporare solo il gusto amaro delle cose. Allora ci rifugiamo nell’illusione che tutto migliori e quindi ci piace di più l’attesa del traguardo raggiunto. Così pure nell’amore, viviamo il periodo più intenso proprio nei tormenti del piacere al nostro amato. Poi quando lo conquistiamo già non ci interessa più. Siamo presi dalla (o dallo) Sturm und Drang che ci divora ogni cellula finché non raggiungiamo il nostro obiettivo. È una sensazione bella e brutta allo stesso tempo, ma breve e fugace. Sparisce in fretta perché veniamo divorati dalla sindrome del: «Tutto qui?».

Sarà che viviamo in un’epoca sazia, anzi ingorda. Probabilmente questo ci annebbia non solo la pancia, anche il cervello. Ma non è una critica. Non si tratta di un giudizio morale, solo di una piccola constatazione. È molto più potente l’attesa della conquista. Non è che l’abbiamo inventato noi, d’altronde. Lo spiegava molto bene il poeta Giacomo Leopardi nella poesia “Il sabato del villaggio” e l’hanno analizzato con dovizia di particolari valanghe di filosofi e di scrittori di tutte le epoche. Per questo godiamoci l’attesa dell’attesa, cioè questi giorni che portano alla Vigilia di Natale. Proviamo a pensare che quest’anno potrebbe essere tutto diverso. Che non si trasformerà tutto in quella noia che aveva cantato Franco Califano in un suo famoso album. Insomma, teniamoci stretta almeno la Vigilia con tutto il suo carico di bellezza ma anche di fatica perché bisogna comprare gli ultimi regali, fare visita agli amici per portare loro almeno un pensierino, organizzare la cena con i parenti e, magari, aggiungerci anche la messa di Mezzanotte. Un bel tour de force che finisce per farci dimenticare che quel giorno avrebbe potuto essere – considerati i presupposti di cui si diceva poco sopra – il più bello dell’anno.

Una scappatoia, però, potremmo trovarla. Godiamoci la vigilia della vigilia cioè il 23 dicembre. Quest’anno cade di sabato. Quindi potrebbe essere il giorno giusto per fare pace con noi e con il mondo. Per un giorno solo, però.

 

#Oltre n°4/2024 | Una tazza di tè per Putin e Netanyhau

#Oltre n°43/2023 | Non c’è Natale senza panettone (anzi torrone)

Non c’è Natale senza panettone (anzi torrone)

Sarà anche il dolce tradizionale di Milano a Natale ma il panettone è ormai circondato da un nugolo di avversari, di altri dolci che gli fanno concorrenza. E non si tratta del Christmas Pudding, tanto sponsorizzato in terra britannica. Ci sono ben altre prelibatezze che fanno a gara con quel tipico simbolo delle feste che ci ha però un po’ stancato. I puristi si arrabbieranno perché non esiste Natale senza panettone ma che dire del pandoro? Bello, dolce, morbido e profumato, senza quei canditi che ti si attaccano ai denti. Questione di gusti. È come chiedere a un bambino se vuole più bene alla mamma o al papà. Ma pandoro e panettone competono ad armi pari sulle nostre tavole e rischiano di farci dimenticare il vero re delle feste. Quel dolce tanto amato dai dentisti perché, se non si sta attenti, rischia di causare qualche danno ai nostri molari già messi a dura prova da un’alimentazione non sempre irreprensibile. Il migliore è lui, e scusate se lo tratto quasi se fosse un essere animato ma non posso non mostrargli amore e ammirazione.

Sua maestà il torrone merita il primo posto nell’ideale classifica dei dolci di Natale. Mi raccomando, però, non quello molliccio che ci viene propinato in certi supermercati di seconda scelta. Il torrone deve essere tosto e dolcissimo. Mandorle, zucchero, miele: solo a scrivere gli ingredienti viene voglia di assaggiare questo straordinario prodotto italiano. Tipico di Cremona ma molto diffuso in tutta Italia e soprattutto al Sud, dove si mangia insieme alla cubata, altro buonissimo dolce di Natale. L’origine di quest’ultima viene fatta risalire agli arabi. Questo insieme di mandorle e glassa dolce non sempre viene chiamata così ma condivide con il torrone la medesima caratteristica: se non la maneggi con cura rischia di distruggerti i denti.

Insomma, panettone e pandoro sono prodotti per mammolette. Chi vuole assaporare il gusto strong del Natale deve passare ad altro. E ne trarrà grandi soddisfazioni. Senza, naturalmente, prendersi troppo sul serio perché ognuno, come si diceva prima, ha i suoi gusti ed è giusto che sulla tavola di Natale scelga ciò che più preferisce. Lunga vita, dunque, al panettone. Che sembra tornato di moda dopo aver passato un periodo di forte crisi. Negli anni Settanta fu una sfida ad armi pari tra Motta e Alemagna per prendersi un tipico primato milanese. Ormai ci sono panettoni di tutte le marche e di tutti i gusti, con farciture e cremine che, in alcuni casi, fanno venire il voltastomaco. Fatto sta che la crisi di qualche tempo fa è stata superata. La varietà dei prodotti ha aumentato la scelta di panettoni anche se si può sempre cambiare abitudine. Che Natale sarebbe, infatti, senza il torrone?