IL PENSIERO DEL DIRETTORE
Tra i cappelli del Royal Ascot la verità sta nell’apparenza
Se c’è un posto dove il cappello è di casa, quello è il Royal Ascot di Londra. Per chi non è appassionato di cavalli queste due parole – Royal e Ascot – dicono poco. Oppure stanno a rappresentare una semplice festa glamour alla quale prende parte l’aristocrazia britannica invitata dalla famiglia reale. Per chi riconosce nel mondo delle corse l’emblema della sfida, della vita e dell’eterno dilemma tra soldi e merito, questo è il paradiso. Anzi, molto più del paradiso. È il luogo dove, probabilmente, sognano di finire i musulmani quando moriranno dopo una vita di fedeltà ad Allah. Infatti, ci sono tanti islamici al Royal Ascot, perché i proprietari (e alcuni allenatori) sono gli sceicchi che investono fiumi di soldi nella grande passione della loro vita, tanto da chiamare Godolphin la scuderia più importante, che è il nome di uno dei purosangue da cui discendono tutti i cavalli da corsa del mondo.
Ma dovevamo parlare di cappelli. Ci siamo persi via perché quando pensi al Royal Ascot, al profumo del Pims, al mitico salto da cavallo di Frankie (che purtroppo non lo potrà più fare), agli allibratori con i look più strani, al programma in stile retrò e a tanto altro ancora, vieni rapito da quest’atmosfera unica e irripetibile. Ed è qui che le più belle donne d’Europa, se non del mondo (ce lo consentite?) arrivano per bere Champagne e mostrare i cappelli più stravaganti. Lo scopo è di attirare l’attenzione, di lanciare messaggi o, più semplicemente, di mettersi in testa quello che più ci piace. È un modo per dire: «Io ci sono». E le donne, in questo, sono maestre. Gli uomini, come sempre, nella moda più che mai, sono omologati. Si mettono un cappello a cilindro e via andare. C’è quello nero, quello grigio scuro ma sono pochi gli azzardi. Qualche brillantino, a volte, ma davvero fuori luogo. Le donne, invece, sfoggiano di tutto. L’anno scorso si potevano vedere i vasi di fiori sulla testa, le costruzioni geometriche, le bandiere dell’Inghilterra oppure piume di struzzo e persino un pappagallo imbalsamato. Chi più ne ha più ne metta. Non ci sono confini al buono o al cattivo gusto. Tutto è lecito in quanto a copricapi. Per il resto, invece, vigono pressanti dress code che consigliano alla donna di non indossare pantaloni (sportivi) e all’uomo di mettersi, come minimo, in completo.
L’apparenza, dunque, è sostanza al Royal Ascot. Per questo il meeting che si disputa dal 1711 non passa mai di moda. È l’emblema di ciò che siamo, ovvero eterne contraddizioni viventi. Meglio non si potrebbe dire di noi, se non indossando un bel cappello, dietro cui nascondere la nostra vera natura, ben consci che al traguardo ci attendono merito e soldi. Non per tutti, però. Solo per chi vince al Royal Ascot.
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In bilico tra Nietzsche e Charles Bukowski
Connubio importante quello tra cocktail e film. Protagonisti di pellicole cult come personaggi minori hanno mostrato di apprezzare il gusto di questi mix in grado di ingannare l’attesa o di alimentare la conversazione, di essere parte importante di pellicole che provano a lasciare il segno. E in tanti casi ci riescono.
Sara Magnoli fa una completa analisi di questo fenomeno che non può essere circoscritto al semplice episodio cinematografico ma va oltre e disegna uno spaccato sociale e culturale. Da analizzare con cura. Primo elemento da prendere in considerazione, quindi, è quello del ruolo del cocktail dentro la frenetica vita moderna e pure di quella più placida di oltre cinquant’anni fa. Due sono gli emblemi principali. Li sceglierei nel Grande Lebowsky dei fratelli Cohen e in Colazione da Tiffany con l’immensa Audrey Hepburn. In entrambi i casi il mix alcolico è sinonimo di evasione ma, se nel primo film, rappresenta quasi una misura di vita, un modo per restare dentro un mondo fatto di sregolatezze, aggiungendone di nuove, nell’altro si presenta come parentesi gustosa dentro un’esistenza (quasi) normale che si trasforma in un sogno. La perpetuazione della trasgressione è possibile grazie al White Russian nella pellicola che ha come protagonista il Drugo Jeff Bridges, mentre è emblema di trasformazione nello stupendo lavoro del 1961. Dunque, come proiettare tutto ciò nella società che i film rappresentano?
Si potrebbe citare Friedrich Nietzsche per prendere in mano il bandolo della matassa. Il filosofo tedesco mette a confronto come due facce della stessa medaglia l’apollineo e il dionisiaco. Nell’uomo esiste una doppia valenza di costruire e di distruggere, la forza vitale si esprime attraverso la saggezza, la moderazione che porta a realizzare i propri obiettivi che nulla sarebbero, però, se non animati da una oscura forza propulsiva che, se non viene incanalata, ci porta all’annientamento. Cosa c’entra tutto ciò con i cocktail? Semplice, questi carburanti vitali che tanti film ci raccontano con dovizia di particolari, altro non sono se non l’espressione del dionisiaco che c’è in noi, uno stato dell’essere caratterizzato dall’esaltazione, dall’ebbrezza spirituale e fisica, dalla necessità di trasferire il proprio io nei riti orgiastici di Bacco. Ne usciremo vivi? Sì, se sapremo compensare questa forza con le redini della parte apollinea. Non è facile ma ci possiamo provare. E se non ci riusciremo, affogheremo la nostra delusione in un cocktail guardando un bel film che ci indurrà a non mollare il bicchiere. Ve lo ricordate Barfly, il film sulla vita di Charles Bukowski. Vi verrà una voglia matta di bere, dopo averlo visto. Andateci piano, però. La vostra vita non è un film.
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«Sì, viaggiare» Impariamo a dar retta a Lucio Battisti
Sì, viaggiare. Lo cantava Lucio Battisti quasi cinquant’anni fa e il desiderio di evasione non è venuto meno. Anzi, si è intensificato durante il boom e ha avuto un unico freno determinato dalla pandemia che ha costretto tutti a casa. Poi la voglia di fare la valigia è tornata ed eccoci qui a raccontare di un nuovo exploit delle prenotazioni.
C’è la crisi, è vero. Mancano i soldi per fare la spesa ma come si fa a rinunciare a un bel viaggio che ci permette di staccare dalla routine di tutti i giorni? Le abitudini, però, sono cambiate. È finito il periodo dell’esodo agostano, quando ci si metteva tutti in coda sull’autostrada per raggiungere le località di vacanza, oppure le famiglie del Sud che abitavano al Nord si ricongiungevano con amici e parenti in un periodo ben determinato che coincideva con la chiusura delle fabbriche nelle grandi città. Adesso è tutto cambiato. I periodi di pausa sono, per la maggior parte, più brevi. E, soprattutto, mirati. Ecco, allora, che prendono piede le vacanze in coincidenza con i grandi eventi sportivi o musicali, con le mostre d’arte o con le kermesse gastronomiche. Ci sono pacchetti su misura per tutti. Diluiti nell’anno. E questo conferma una voglia di evadere che non è più casuale. Guardandolo in positivo questo fenomeno dimostra che va per la maggiore il turismo intelligente, optando per la visione negativa significa che la nostra società si muove ormai solo per schemi.
Può sembrare un controsenso ma la nostra ineguagliabile libertà, per esprimersi ha bisogno di essere incanalata. Ci sentiamo quasi persi se non abbiamo qualcosa al quale appigliarsi. È una sensazione strana che coincide con l’ormai inevitabile necessità del cellulare. Se parlate con un nativo digitale vi dirà che lo smartphone non è uno strumento ma una parte del corpo. Ma pure noi che siamo boomer abbiamo creato questa dipendenza che non è altro che specchio della nostra insicurezza. E così, anche quando scegliamo le nostre vacanze, abbiamo bisogno di una meta precisa e di un programma sicuro con evento che ci attiri. E non ci sia qualcuno che inorridisca davanti alle nostre scelte. Le vacanze sono sacre e ognuno è libero di passarle come meglio crede.
Viaggiare è una delle attività più belle che l’uomo e la donna possono permettersi. Ce lo ricordava Battisti e noi non ce lo dimentichiamo. In un mondo che va a una velocità folle, la cosa migliore è scendere per ritagliarsi spazi e tempi preferiti. Se tutto ciò coincide con un programma mirato non si scandalizzerà nessuno. Ci emozioniamo per quello che è imprevisto ma anche per quello che conosciamo e che ci piace. Non resta che preparare la valigia.
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L’importanza di mantenerci sempre dei romantici
La religione ma soprattutto la sapienza degli antichi ci insegnano che il male esiste dentro la confusione dei linguaggi. Non bisogna essere degli esperti né di teologia, né di filosofia, per rendersi conto che questa considerazione vale al giorno d’oggi come oro colato di fronte all’intersecarsi e all’incartarsi delle nostre parole che si diffondono come «tromba di guerra e di rivolta» (così definiva Thomas Hobbes il modello di comunicazione umano) nel meccanismo amplificato del mondo digitale. Una sensazione di spaesamento prende chi non riesce a maneggiare il nuovo universo tecnologico e finisce per rimanere triturato dentro questa moderna Torre di Babele in cui la vanità prende il sopravvento rispetto alla conoscenza.
Cosa vogliamo salvare, allora? Beh, la risposta è sempre la stessa. Per mantenere vivo quel punto bianco che tutti abbiamo nel cuore, quell’inesauribile carburante che lo scrittore afgano Farhad Bitani ha conservato come un gioiello prezioso di fronte alle brutture del regime talebano, dobbiamo credere nell’amore, in quel sentimento che ci rende simili a Dio, quel moto dell’anima che Platone ha riassunto nell’unione dell’eterno diviso, nella capacità di sognare e di progettare qualcosa di infinito pur essendo noi costretti a vivere dentro una struttura finita, visto che il nostro corpo un bel giorno ci lascerà. Sarebbe bello che fosse così. Peccato che anche l’amore, di questi tempi, non vada di moda. Soffre la crisi del mondo moderno per un motivo evidente: l’amore è semplice (o si prova o non si prova) e fa fatica a convivere dentro una realtà complessa come la nostra.
Lo si diceva all’inizio, la confusione dei linguaggi ha creato l’incomunicabilità, l’incapacità di aprire gli occhi di fronte alle cose belle, l’impossibilità di lasciarsi contagiare da cuore e passione. Abbiamo sempre un retropensiero che ci frena e ci impedisce di gustare quello che la vita ci offre. Ma ora c’è una soluzione. Armiamoci di un po’ di ironia e, in questi giorni che ci avvicinano al santo degli innamorati (San Valentino), lasciamoci guidare dal Love Coach. Si chiama proprio così quel professionista in grado di guarire le ferite d’amore e di instradarci verso il soddisfacimento del nostro sentimento verso l’amato o verso l’amata. Ci penserà lui a spiegarci come raggiungere l’obiettivo. E qui, permettetecelo, ci viene da ridere, perché abbiamo detto all’inizio che l’origine della nostra rovina sta nel complicare le cose semplici. Ecco, rivolgersi a un esperto per realizzare i sogni d’amore ci pare come una contraddizione rispetto alla naturalezza di questo sentimento. Ma forse la pensiamo così solo perché abbiamo un difetto che questa società sta pian piano eliminando. Siamo romantici, e che ci possiamo fare?
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Una tazza di tè per Putin e Netanyhau
La storia si scrive attorno a una tazza di tè, una bevanda che non è mai passata di moda e che trasmette calma, tradizione, voglia di parlarsi senza alzare la voce, rilassati, pronti ad ascoltare, non solo a spiegare le proprie ragioni. Prima e dopo si può anche fare la guerra ma in quella parentesi sospesa nel tempo in cui i grandi del mondo si sono fermati per bere un tè è sembrato che parlassero la stessa lingua, convinti di andare d’accordo, di vivere in pace e di trasformare il pianeta in un luogo dove regna la concordia assoluta.
Quante tazze di tè ci vorrebbero in quest’epoca di guerre disumane? Tante. E forse non basterebbero. Ma la speranza, come dice l’antico adagio, è l’ultima a morire quindi è giusto dare una chance a quella bevanda magica che, nel corso della storia, ha fatto miracoli. La tradizione britannica conferisce al tè questa capacità taumaturgica, quindi sarebbe bello mettere al tavolo, in questo momento, i capi di Hamas con Benjamin Netanyhau, oppure Vladimir Putin con Volodymyr Zelensky. Chissà cosa ne uscirebbe? Noi siamo sognatori e ci illudiamo che sia una cup of tea a risolvere i mali del mondo. Purtroppo non è così. Potremmo allora proporre le classiche ricette italiane dei tarallucci e vino o della pizza. Ma è difficile ottenere il risultato sperato perché ormai il livello dello scontro e dell’incomprensione è talmente alto che non bastano gli ingredienti del buonsenso per arrivare a una soluzione. Dobbiamo allora accontentarci di sorseggiare un tè guardando la televisione, mentre scorrono le immagini dei massacri, mentre vengono mostrati al mondo i gravi difetti del genere umano.
Passano gli anni, si succedono le epoche ma non c’è verso di comprendere che l’egoismo porta sempre e soltanto alla distruzione. Eppure lo sperimentiamo tutti i giorni. Vediamo i cadaveri del Medio Oriente o i morti sul fronte orientale e non ci domandiamo perché la spirale di violenza continui indisturbata a causare i suoi guasti. Basterebbe fermarsi un attimo. Scendere da quel Treno per il Darjielin che raccontava Wes Anderson nel famoso film che diversi anni fa presentò al festival di Venezia per capire che la vita non è una corsa all’impazzata verso il nulla ma un’avventura magnifica da vivere giorno per giorno. Con calma.
Il riferimento al Darjielin non è casuale. Richiama una delle terre indiane più famose per la produzione del tè nero. Sarà un caso (ma forse no). L’indicazione chiara di quel film è di fermarsi un attimo per riflettere. Sorseggiare quella magica bevanda ci aiuta a tornare in pace con noi stessi. E a capire gli altri. Per smettere – finalmente – di fare la guerra. E non sarà (si spera, un giorno) solo un momento passeggero.
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Taglio i baffi o li tengo? Attenzione a non sbagliare
In un mondo che fa dell’immagine il proprio punto di riferimento, il look diventa importantissimo. Come ci si veste ma come ci si pettina o come ci si trucca sono parti indispensabili di un meccanismo di comunicazione in cui tutto conta.
In questo discorso entrano a pieno titolo barba e baffi per gli uomini. Sono sempre di più i giovani che scelgono di non radersi. O meglio di accompagnare la crescita di barba e baffi con sapienti tocchi di rasoio e forbici per renderli confacenti all’immagine che ognuno nutre di sé. È una sfida difficile ma divertente perché testimonia l’evoluzione nello stile degli uomini che non amano più essere degli sciattoni casual ma preferiscono mostrare nel look la loro personalità. Evoluzione positiva, dunque, ma anche impegnativa. Rende evidente una trasformazione di ruolo ma non è che parta dal nulla. Non è vero che l’uomo scopra solo adesso di essere attento al proprio bell’apparire, si accorga di diventare un po’ civettuolo. Lo è sempre stato. Con la brillantina Linetti sui capelli o con mustacci lunghi e curatissimi, ha provato a caratterizzarsi per piacere di più, prima di tutto a se stesso, poi agli altri. Ora siamo di fronte a nuovo cambio di paradigma perché, se i capelli curati e il viso sbarbato, sono andati per tanto tempo per la maggiore, adesso si preferisce mostrare i segni della propria virilità in modo più accentuato. È un modo per dire a tutti: «Ehi, guardate: sono un uomo!». La lettura potrebbe essere calzante in questo periodo di generazione fluida. Un modo per marcare il proprio sesso di fronte alla società, non per far spiccare i difetti dell’omofobia, ma per convincere gli altri (e forse anche se stessi) sulla propria chiara identità. Interpretazione psicologica e sociologica, dunque, rispetto a un look che può avere, però, solo radici estetiche.
Al bando, dunque le spiegazioni profonde, barba e baffi in questo periodo piacciono di più rispetto al viso lindo e pulito. Dunque si segue una moda che permette di accettare meglio il proprio aspetto fisico e di essere più accettati dagli altri.
Che piacciano o non piacciano, comunque, i baffi sono il motivo ispiratore di un libro di Emmanuel Carrère che forse non tutti conoscono (non è tra i più venduti) ma che inquieta alla lettura. Parla di un uomo che si taglia i baffi ma che tutti quelli che lo conoscono, a cominciare dalla moglie, gli fanno notare che mai li ha avuti prima. Risultato: il protagonista va fuori di testa perché, quello che all’inizio può sembrare solo uno scherzo, in un crescendo di nervosismo e tensione, finisce nel peggiore dei modi. Dimostra come il look possa segnare la nostra vita. Nel bene e nel male. Un paio di baffi e una barba da hipster possono fare la differenza. Pensiamoci un attimo, senza (per favore) cadere nella trappola di Carrère.