IL PENSIERO DEL DIRETTORE
Ho un cane affettuoso che si chiama Diego
I cagnolini per fare yoga? Bella idea, se non altro perché ormai sono più umani i quadrupedi delle persone. Frase forte che presuppone il mio rapporto quotidiano con Diego, il mio cane, un meticcio dal manto scuro, nato da un incrocio probabile tra pointer, setter e chi più ne ha più ne metta. Preso al canile quando era piccolo, tremava alla sola visione di un uomo. Per forza, era stato picchiato a sangue quando era appena nato, tanto che è stato sottoposto a pochi mesi a un’operazione di ernia. Il guaio fisico è stato sistemato ma la paura gli è rimasta. Anche oggi – che ha dieci anni – quando vede un uomo alto e con la barba abbaia come un ossesso e non si fa toccare per nulla al mondo. Gli è rimasto il trauma e dà poca confidenza a tutti. Con me è un tesoro. Difficile spiegare il rapporto che si crea tra il cane e il suo padrone (usare questa parola mi dà fastidio, perché sarebbe meglio parlare di amico). Non può essere solo una questione di cibo (che gli do tutti i giorni) ma, quando sono in casa, è difficile togliermelo di torno. Dove mi siedo, lui si accomoda vicino. Se metto le scarpe lui si prepara a uscire, salvo rimanere deluso nel novanta per cento dei casi. Ma Diego non s’arrabbia, non fa ripicche, non si offende. Alla sera ti aspetta, felice di rivederti.
Lascio perdere su come si comportano gli altri componenti della famiglia. Penso che il mio caso non sia isolato. Il maschio adulto in Italia ormai è trattato alla stregua di un paria (non è vittimismo), gli vengono sistematicamente tolti spazi e tempi propri in una progressiva e costante perdita di ruolo. Solo il cane ti riconosce come persona da volere bene in maniera disinteressata. Va oltre i tuoi pregi e i tuoi difetti.
Visione romantica di un opportunista? A volte lo penso e i miei figli (forse gelosi) me lo fanno notare: il cane è così perché dipende da chi gli dà da mangiare e lo porta al parco. Ma c’è qualcosa di più. Oppure, più semplicemente, mi illudo che sia così. E non potevo chiamarlo se non Diego, ovvero il nome del più grande calciatore al mondo, colui che ha saputo emozionare e fare innamorare milioni di persone. Glielo dovevo anche perché per i nomi dei figli ho dovuto scendere a patti con mia moglie e, avendone già scelto uno (quello di mio padre), non potevo impormi anche sul secondo. Così ho gratificato Diego e ora scopro che della mia stessa passione (non per Maradona ma per il proprio cane) soffrono in molti, tanto da dedicarsi allo yoga con il loro puppy. Tutto ciò rilassa e fa star meglio, forse perché gli umani tanto umani non lo sono più. E sono peggio degli animali. Altra frase forte ma mi perdonerete. Lo dico a fin di bene, perché amo gli animali e la loro istintiva capacità di vivere senza quella che Giacomo Leopardi chiamava “La noia”, riattualizzata da Angelina a Sanremo. Ma il senso è lo stesso. Viva i cani, allora.
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Mettersi in armonia con la natura e il creato
L’unico modo per tenersi al riparo dalle mode è di anticiparle. Così avranno pensato i fondatori del giardino botanico di Padova o di Pisa (i più antichi d’Italia) quando hanno lanciato questa idea, poi diffusa in tutta Italia. Sono passati circa cinquecento anni ma quello che poteva sembrare solo un gusto passeggero si è rafforzato ed è diventato un modo di vivere le città, visto che queste splendide oasi naturali si trovano spesso al centro di nuclei urbani densamente abitati.
Una moda che resiste, anzi è sempre più in voga, se si considera che, in questi tempi di inquinamento planetario, è diventato un obbligo professare il culto del green. Se ne parla tanto e spesso a sproposito, ma non sembrano esserci dubbi sul motivo del successo di queste iniziative. Alla base sta la necessità che abita nel cuore degli uomini e delle donne di stare in pace con se stessi dentro la natura. Una natura che non è matrigna, come ce la raccontava Giacomo Leopardi, ma accogliente perché disegnata secondo il volere di chi ha progettato i giardini o gli orti botanici. E qui sta il punto: amiamo il verde ma lo vogliamo disciplinare ai nostri voleri.
Avete presente il bosco verticale di Milano? Bello e impossibile. Nel senso che devi accendere un mutuo cinquantennale se ti vuoi comprare una casa in quel palazzo di modernissima concezione. Ma, lasciando perdere il fattore economico, resta il tema di base del rapporto dell’uomo con la natura. Sin dall’antichità è sempre stato un binomio di difficile armonizzazione perché, volente o nolente, l’istinto di sopraffazione dei bipedi con il cervello ha sempre avuto la meglio sul regno vegetale creando non pochi guai al benessere del pianeta.
Ma ora non è il caso di buttare la croce addosso ai giardini botanici, anzi è venuto il momento di riconciliarsi una buona volta con la natura, seguendo i principi del rispetto e del reciproco benessere. Lo stesso che si respira entrando dentro questi paradisi che mixano alla perfezione bellezza e armonia. In questo modo riescono a veicolare un messaggio che vale anche ai nostri giorni, al di là delle mode del momento e andando oltre il semplice sfruttamento. I giardini botanici ci dicono che uomo e natura possono convivere senza farsi del male, sprigionando quella forza interiore che sta racchiusa dentro il creato. Basta lasciarla fluire in libertà per sentirsi bene e per vivere in pienezza con quello che ci sta attorno.
È questo il segreto dei giardini botanici. Per sperimentarlo basta poco: il consiglio è di prendersi un po’ del proprio tempo (sottraendolo ai tanti impegni inutili che spesso caratterizzano la nostra vita) e visitarli. Ne vale senz’altro la pena.
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Tra i cappelli del Royal Ascot la verità sta nell’apparenza
Se c’è un posto dove il cappello è di casa, quello è il Royal Ascot di Londra. Per chi non è appassionato di cavalli queste due parole – Royal e Ascot – dicono poco. Oppure stanno a rappresentare una semplice festa glamour alla quale prende parte l’aristocrazia britannica invitata dalla famiglia reale. Per chi riconosce nel mondo delle corse l’emblema della sfida, della vita e dell’eterno dilemma tra soldi e merito, questo è il paradiso. Anzi, molto più del paradiso. È il luogo dove, probabilmente, sognano di finire i musulmani quando moriranno dopo una vita di fedeltà ad Allah. Infatti, ci sono tanti islamici al Royal Ascot, perché i proprietari (e alcuni allenatori) sono gli sceicchi che investono fiumi di soldi nella grande passione della loro vita, tanto da chiamare Godolphin la scuderia più importante, che è il nome di uno dei purosangue da cui discendono tutti i cavalli da corsa del mondo.
Ma dovevamo parlare di cappelli. Ci siamo persi via perché quando pensi al Royal Ascot, al profumo del Pims, al mitico salto da cavallo di Frankie (che purtroppo non lo potrà più fare), agli allibratori con i look più strani, al programma in stile retrò e a tanto altro ancora, vieni rapito da quest’atmosfera unica e irripetibile. Ed è qui che le più belle donne d’Europa, se non del mondo (ce lo consentite?) arrivano per bere Champagne e mostrare i cappelli più stravaganti. Lo scopo è di attirare l’attenzione, di lanciare messaggi o, più semplicemente, di mettersi in testa quello che più ci piace. È un modo per dire: «Io ci sono». E le donne, in questo, sono maestre. Gli uomini, come sempre, nella moda più che mai, sono omologati. Si mettono un cappello a cilindro e via andare. C’è quello nero, quello grigio scuro ma sono pochi gli azzardi. Qualche brillantino, a volte, ma davvero fuori luogo. Le donne, invece, sfoggiano di tutto. L’anno scorso si potevano vedere i vasi di fiori sulla testa, le costruzioni geometriche, le bandiere dell’Inghilterra oppure piume di struzzo e persino un pappagallo imbalsamato. Chi più ne ha più ne metta. Non ci sono confini al buono o al cattivo gusto. Tutto è lecito in quanto a copricapi. Per il resto, invece, vigono pressanti dress code che consigliano alla donna di non indossare pantaloni (sportivi) e all’uomo di mettersi, come minimo, in completo.
L’apparenza, dunque, è sostanza al Royal Ascot. Per questo il meeting che si disputa dal 1711 non passa mai di moda. È l’emblema di ciò che siamo, ovvero eterne contraddizioni viventi. Meglio non si potrebbe dire di noi, se non indossando un bel cappello, dietro cui nascondere la nostra vera natura, ben consci che al traguardo ci attendono merito e soldi. Non per tutti, però. Solo per chi vince al Royal Ascot.
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In bilico tra Nietzsche e Charles Bukowski
Connubio importante quello tra cocktail e film. Protagonisti di pellicole cult come personaggi minori hanno mostrato di apprezzare il gusto di questi mix in grado di ingannare l’attesa o di alimentare la conversazione, di essere parte importante di pellicole che provano a lasciare il segno. E in tanti casi ci riescono.
Sara Magnoli fa una completa analisi di questo fenomeno che non può essere circoscritto al semplice episodio cinematografico ma va oltre e disegna uno spaccato sociale e culturale. Da analizzare con cura. Primo elemento da prendere in considerazione, quindi, è quello del ruolo del cocktail dentro la frenetica vita moderna e pure di quella più placida di oltre cinquant’anni fa. Due sono gli emblemi principali. Li sceglierei nel Grande Lebowsky dei fratelli Cohen e in Colazione da Tiffany con l’immensa Audrey Hepburn. In entrambi i casi il mix alcolico è sinonimo di evasione ma, se nel primo film, rappresenta quasi una misura di vita, un modo per restare dentro un mondo fatto di sregolatezze, aggiungendone di nuove, nell’altro si presenta come parentesi gustosa dentro un’esistenza (quasi) normale che si trasforma in un sogno. La perpetuazione della trasgressione è possibile grazie al White Russian nella pellicola che ha come protagonista il Drugo Jeff Bridges, mentre è emblema di trasformazione nello stupendo lavoro del 1961. Dunque, come proiettare tutto ciò nella società che i film rappresentano?
Si potrebbe citare Friedrich Nietzsche per prendere in mano il bandolo della matassa. Il filosofo tedesco mette a confronto come due facce della stessa medaglia l’apollineo e il dionisiaco. Nell’uomo esiste una doppia valenza di costruire e di distruggere, la forza vitale si esprime attraverso la saggezza, la moderazione che porta a realizzare i propri obiettivi che nulla sarebbero, però, se non animati da una oscura forza propulsiva che, se non viene incanalata, ci porta all’annientamento. Cosa c’entra tutto ciò con i cocktail? Semplice, questi carburanti vitali che tanti film ci raccontano con dovizia di particolari, altro non sono se non l’espressione del dionisiaco che c’è in noi, uno stato dell’essere caratterizzato dall’esaltazione, dall’ebbrezza spirituale e fisica, dalla necessità di trasferire il proprio io nei riti orgiastici di Bacco. Ne usciremo vivi? Sì, se sapremo compensare questa forza con le redini della parte apollinea. Non è facile ma ci possiamo provare. E se non ci riusciremo, affogheremo la nostra delusione in un cocktail guardando un bel film che ci indurrà a non mollare il bicchiere. Ve lo ricordate Barfly, il film sulla vita di Charles Bukowski. Vi verrà una voglia matta di bere, dopo averlo visto. Andateci piano, però. La vostra vita non è un film.
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«Sì, viaggiare» Impariamo a dar retta a Lucio Battisti
Sì, viaggiare. Lo cantava Lucio Battisti quasi cinquant’anni fa e il desiderio di evasione non è venuto meno. Anzi, si è intensificato durante il boom e ha avuto un unico freno determinato dalla pandemia che ha costretto tutti a casa. Poi la voglia di fare la valigia è tornata ed eccoci qui a raccontare di un nuovo exploit delle prenotazioni.
C’è la crisi, è vero. Mancano i soldi per fare la spesa ma come si fa a rinunciare a un bel viaggio che ci permette di staccare dalla routine di tutti i giorni? Le abitudini, però, sono cambiate. È finito il periodo dell’esodo agostano, quando ci si metteva tutti in coda sull’autostrada per raggiungere le località di vacanza, oppure le famiglie del Sud che abitavano al Nord si ricongiungevano con amici e parenti in un periodo ben determinato che coincideva con la chiusura delle fabbriche nelle grandi città. Adesso è tutto cambiato. I periodi di pausa sono, per la maggior parte, più brevi. E, soprattutto, mirati. Ecco, allora, che prendono piede le vacanze in coincidenza con i grandi eventi sportivi o musicali, con le mostre d’arte o con le kermesse gastronomiche. Ci sono pacchetti su misura per tutti. Diluiti nell’anno. E questo conferma una voglia di evadere che non è più casuale. Guardandolo in positivo questo fenomeno dimostra che va per la maggiore il turismo intelligente, optando per la visione negativa significa che la nostra società si muove ormai solo per schemi.
Può sembrare un controsenso ma la nostra ineguagliabile libertà, per esprimersi ha bisogno di essere incanalata. Ci sentiamo quasi persi se non abbiamo qualcosa al quale appigliarsi. È una sensazione strana che coincide con l’ormai inevitabile necessità del cellulare. Se parlate con un nativo digitale vi dirà che lo smartphone non è uno strumento ma una parte del corpo. Ma pure noi che siamo boomer abbiamo creato questa dipendenza che non è altro che specchio della nostra insicurezza. E così, anche quando scegliamo le nostre vacanze, abbiamo bisogno di una meta precisa e di un programma sicuro con evento che ci attiri. E non ci sia qualcuno che inorridisca davanti alle nostre scelte. Le vacanze sono sacre e ognuno è libero di passarle come meglio crede.
Viaggiare è una delle attività più belle che l’uomo e la donna possono permettersi. Ce lo ricordava Battisti e noi non ce lo dimentichiamo. In un mondo che va a una velocità folle, la cosa migliore è scendere per ritagliarsi spazi e tempi preferiti. Se tutto ciò coincide con un programma mirato non si scandalizzerà nessuno. Ci emozioniamo per quello che è imprevisto ma anche per quello che conosciamo e che ci piace. Non resta che preparare la valigia.
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L’importanza di mantenerci sempre dei romantici
La religione ma soprattutto la sapienza degli antichi ci insegnano che il male esiste dentro la confusione dei linguaggi. Non bisogna essere degli esperti né di teologia, né di filosofia, per rendersi conto che questa considerazione vale al giorno d’oggi come oro colato di fronte all’intersecarsi e all’incartarsi delle nostre parole che si diffondono come «tromba di guerra e di rivolta» (così definiva Thomas Hobbes il modello di comunicazione umano) nel meccanismo amplificato del mondo digitale. Una sensazione di spaesamento prende chi non riesce a maneggiare il nuovo universo tecnologico e finisce per rimanere triturato dentro questa moderna Torre di Babele in cui la vanità prende il sopravvento rispetto alla conoscenza.
Cosa vogliamo salvare, allora? Beh, la risposta è sempre la stessa. Per mantenere vivo quel punto bianco che tutti abbiamo nel cuore, quell’inesauribile carburante che lo scrittore afgano Farhad Bitani ha conservato come un gioiello prezioso di fronte alle brutture del regime talebano, dobbiamo credere nell’amore, in quel sentimento che ci rende simili a Dio, quel moto dell’anima che Platone ha riassunto nell’unione dell’eterno diviso, nella capacità di sognare e di progettare qualcosa di infinito pur essendo noi costretti a vivere dentro una struttura finita, visto che il nostro corpo un bel giorno ci lascerà. Sarebbe bello che fosse così. Peccato che anche l’amore, di questi tempi, non vada di moda. Soffre la crisi del mondo moderno per un motivo evidente: l’amore è semplice (o si prova o non si prova) e fa fatica a convivere dentro una realtà complessa come la nostra.
Lo si diceva all’inizio, la confusione dei linguaggi ha creato l’incomunicabilità, l’incapacità di aprire gli occhi di fronte alle cose belle, l’impossibilità di lasciarsi contagiare da cuore e passione. Abbiamo sempre un retropensiero che ci frena e ci impedisce di gustare quello che la vita ci offre. Ma ora c’è una soluzione. Armiamoci di un po’ di ironia e, in questi giorni che ci avvicinano al santo degli innamorati (San Valentino), lasciamoci guidare dal Love Coach. Si chiama proprio così quel professionista in grado di guarire le ferite d’amore e di instradarci verso il soddisfacimento del nostro sentimento verso l’amato o verso l’amata. Ci penserà lui a spiegarci come raggiungere l’obiettivo. E qui, permettetecelo, ci viene da ridere, perché abbiamo detto all’inizio che l’origine della nostra rovina sta nel complicare le cose semplici. Ecco, rivolgersi a un esperto per realizzare i sogni d’amore ci pare come una contraddizione rispetto alla naturalezza di questo sentimento. Ma forse la pensiamo così solo perché abbiamo un difetto che questa società sta pian piano eliminando. Siamo romantici, e che ci possiamo fare?