
#Oltre n°24/2021 | Il divano, la tv e una valigia dei sogni bella piena

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L’idea di che cosa sia un influencer o un’influencer non è ancora chiarissima. Diciamo che può essere un testimonial, un esperto o un’esperta di qualcosa, comunque una voce molto ascoltata e una persona molto seguita su Internet. Facciamo due esempi: Chiara Ferragni e l’Estetista cinica. La prima ha tutto per essere una star: bella presenza, bella famiglia con figli e marito, cioè Fedez, star quanto, anzi meno di lei. È una celebrità del web, ma è diventata anche di recente una componente del consiglio d’amministrazione della Tod’s di Diego Della Valle, facendo volare il titolo in Borsa. Dunque, si fa sul serio, tanto sul serio che, quando ha postato una sua fotografia agli Uffizi, gli Uffizi hanno poi dovuto raddoppiare le transenne all’ingresso per quanto sia riuscita a convincere il mondo, soprattutto dei giovani, che lì bisognava andare e siccome era un bel lì: brava, bene, bis. Però c’è un’altra faccia della medaglia. Di recente un’influencer è andata più volte in un noto e buon ristorante romano. In una di queste volte ha anche pubblicato sui social qualcosa con commento e geolocalizzazione, cioè ha fatto sapere dove e in quale ristorante era. Boom di prenotazioni, ovvio, ma di prenotazioni di giovanissimi che poi al ristorante ordinano il minimo al minimo costo, tanto solo per dire di essere stati lì, e siccome è un buon lì: brava influencer, bene, bis. Beh, non proprio, visto che i ristoratori ora si trovano costretti a respingere prenotazioni di grandi spenditori a cena per accogliere orde di follower giovanissimi e poco dotati di carta di credito.
Il secondo esempio è quello invece di un’estetista che con la sincerità e la schiettezza ha costruito un mondo web di sostenitrici adoranti, “le fagiane” si chiamano, e un’industria di produzione di creme et similia da far invidia a stuoli di pmi e non solo. Due settimane fa è stata citata in un articolo di un giornalista, Michele Masneri, sul Foglio e siccome non ha gradito la citazione ne è partita una valanga di polemiche e contropolemiche sui social network che a sua volta ha ri-partorito un lunghissimo articolo sul Foglio. Quello che impressiona, in questi due casi, è l’enorme peso del rapporto singolo-massa. E il potere di un singolo su una massa ha sempre qualcosa di preoccupante, di rischioso, soprattutto se e quando il potere di un singolo va su una massa per andare, direttamente o indirettamente, contro un altro singolo. Questo dimostra che è vero che la rete è potenzialmente molto democratica, ma potenzialmente è pure molto autoritaria, anche se ovviamente qui solo di star si sta parlando. Ma solo di star si sta parlando?
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L’idea di trovare l’originale cui Achille Lauro si ispira, che Achille Lauro copia (Robert Smith dei Cure, Steven Morrissey dei The Smiths, Renato Zero, perfino David Bowie), non è soltanto ingiusta – anche perché tutte le star che sono venute dopo sono figlie di star venute prima, salvo rarissime e clamorose eccezioni – ma soprattutto ci porta via dal cuore del problema. Naturalmente, il cantante romano trasferitosi poi a Milano, la star dei giovani che ama scandalizzare e farsi anche odiare e travestirsi e svestirsi, è sfuggente, spesso respingente, ma mette in scena tre elementi fondanti dell’attuale mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento in generale. Ovviamente, se sei un rapper o qualcosa di simile, devi avere un’infanzia complicata da abbandoni e vite vissute con gente più grande e più sdrucita di te. Ma la vita è vita va rispettata. Il punto sul suo ruolo è un altro. Il primo elemento, infatti, è che ormai anche le opere di un singolo sono produzioni collettive, macchine glam rock di creazione più o meno artistica, catene di montaggio audio-video-testi. Lo ha detto lui stesso, dietro Achille Lauro c’è una squadra e un progetto, una continua costruzione, lavori in corso. E poi uno va al trucco e parrucco.
E qui si inserisce il secondo elemento. «Quattro giorni da sveglio, non lo faccio più», così l’estro diventa perizia nella produzione collettiva, il talento del singolo, qualunque esso sia, è soltanto una delle innumerevoli entrate in un avveniristico equalizzatore che deve trovare un perfetto equilibrio tra intuizione e precisione. Con l’aiuto di tanta tecnologia, certo, ma anche qui conviene non rinnegare il presente, non ostracizzarlo, se no sarà lui a ostracizzare noi, semmai è utile capirlo, a volte correggerlo. «Mi riducono a un’idea», ecco non vogliamo farlo, ma c’è un terzo elemento. L’intrattenimento in generale non è più frutto di una sola opera, è vivere e soprattutto far vivere un’esperienza, fatta di musica (tutti i generi, e Achille Lauro ci riesce, dal melodico al rock, dal rap alla dance, perfino anni 30 e quasi jazz), teatro, soprattutto quello molto teatrale, pagine di libri, trasformismi, fashion, frasi retoriche e shock, social media performance, trucchi, tanti trucchi. «Ridi di me, io di te, ma siamo uguali». Ecco, l’ironia, il senso del limite, forse è quello che a volte un po’ gli manca, ma uno, una squadra capace di ricreare l’intero spettro spettacolare in un’unica storia da raccontare continuamente come questa, beh, comunque va considerata come una produzione artistica da studiare. Poi ognuno può farsi tutte le idee che vuole su quel che dice, rappresenta, evoca. Del resto Achilleidol, come forse un po’ tutti, è «la solitudine nascosta in un costume da palcoscenico», nonostante tutte le squadre dietro e davanti a noi.
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L’idea che uno come Roberto Baggio sia al centro di una docufiction su Netflix e di una canzone, colonna sonora, scritta da un vincitore di Sanremo come Diodato non sorprende, anzi, consola, rallegra, convince. Di precedenti, in un’antologia sommaria, se ne trovano eccome. Cesare Cremonini, nella stagione dopo la Vespa truccata, ci ricordava che, soprattutto a Bologna, “da quando Baggio non segna più non è più domenica”. Prima di lui, ma sempre un che di bolognese c’era, Lucio Dalla cantava: “Sei mai stato il piede del calciatore che sta per tirare rigore. Baggio. Baggio”. E infine i Pinguini Tattici Nucleari: “Ci vuole coraggio nel ’94 a essere Baggio”. La cosa incredibile con Roberto (per tutti “Robi”) Baggio è che per tutti, appunto, e per tutte le squadre in cui ha giocato, anche se ha giocato poco o nulla, è stato ed è una bandiera. Per Vicenza, per Firenze, per la Juve, per il Milan, per Bologna, per l’Inter, per Brescia. E ovviamente per la Nazionale. Com’è possibile che sia l’unico italiano a memoria di chi scrive che riesca ad abbinare su di sé il riconoscimento assoluto del talento e l’indomabile affetto collettivo? Trovare la risposta a questa domanda significa scoprire il segreto del successo. Roba che neanche il Tenente Colombo riesce a concludere l’indagine, con o senza l’aiuto della moglie. Ma alcune supposizioni si possono fare. Intanto il Divin codino ha sofferto, più volte, e si è sempre rialzato, con classe e calma. E poi è un italiano strano, non entrerebbe nella canzone di Toto Cutugno, e gli italiani amano amare gli italiani strani. Buddha, i silenzi, quello stare al suo posto nonostante e con la grandezza delle sue doti sportive, gli occhi di luce malinconica, il profilo acuminato e quella particolare capigliatura metà Rinascimento e metà trash. Il suo muoversi in campo, con o senza palla, ma con di più, non ha avuto pari dopo Sandro Mazzola e Gianni Rivera, però le doti calcistiche – come recita Diodato – non spiegano tutto l’amore per l’uomo dietro il campione. L’amore non si spiega, certo, ma anche qui delle supposizioni si possono fare. Baggio ha saputo sempre unire la determinazione nella ricerca dell’obiettivo, che sia il gol o una guarigione, alla tranquilla nonchalance con cui chi sa di aver dato tutto e di poter fare qualsiasi cosa in campo guarda con saggia ironia a ogni inciampo, a ogni debolezza, ai lustrini, alle paillettes e alle magagne di un mondo che come ogni cosa al mondo ne ha. Baggio è stato Baggio, un pezzo unico anche se non lo strillava, anche se sbagliava un rigore, anche se il CT non lo convocava, una bandiera, anche se stava poco in una squadra, la bandiera della nostalgica sicurezza di sé che solo chi si sente libero può sventolare. Mai bianca.
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Mi ricordo certi solitari pomeriggi estivi. E certe tediose domeniche invernali. Mi ricordo, sì mi ricordo. Ho ben nitide alcune immagini, nuvole alte nel cielo, nebbie così dense da faticare a distinguere la strada di casa, paesaggi desolanti, deserti di periferie industriali. Mi sovviene il senso dei pensieri che mi battevano in testa, mi sembra persino di riscoprire il sapore che lasciavano in bocca. Ma certamente è una delle tante stranezze che i nostri fallaci sensi regalano. Eppure quelle sensazioni che fanno parte del mio essere materiale sono risorse magnifiche a cui ricorrere nei momenti più complicati. Sono i mattoncini con cui ognuno costruisce il palazzetto del proprio presente. Nel rammentare mi accorgo che anche allora, tanti anni fa, i pensieri meno allegri erano i più importanti. Perché i bei pomeriggi assolati, i sabati di feste, i giorni dei piccoli trionfi lasciavano ben poco, se non il rimpianto e il desiderio di ripetizioni che mai venivano a comando. Invece i momenti più complicati, le solitudini che parevano montagne tenebrose e invalicabili, i tentativi di scrutare un futuro tutt’altro che rassicurante, quelli erano meravigliosamente produttivi. Con l’andar del tempo ho capito che l’assurda pretesa di una vita programmata e programmabile è un limite da superare. Certo, tra molte letture ero incappato più volte in ragionamenti simili, ma l’esperienza vera l’essere umano non se la fa certo sui libri. Il pensiero oggi la prende alla larga, ci gira intorno, come un uccello rapace che in volute sempre più strette studia il momento per piombare sulla preda. Che altro non è se non l’addio, un bell’addio. Fatto di immagini, appunto, di ricordi e di sensazioni. Abbiamo così tanta disabitudine all’addio, noi contemporanei, che ci pare quasi un delitto. E invece è una costante della vita, e ce ne dobbiamo riappropriare. Certo un buon addio richiede un minimo di forma, una goccia di eleganza e qualche noncuranza. Non grandi cose. Quel poco che basta per distinguere un cialtrone da un galantuomo; chi sa sorvolare da chi resta ancorato pesantemente al contingente. Chi sa attribuirsi il giusto peso da chi si ritiene un purosangue in gara con i somari. C’è chi queste semplici verità le impara subito e chi mai. Ma giudicare gli esseri umani è talmente inutile, meglio non farsi distrarre e semmai dedicarsi alle loro opere, quando sono buone. Ecco, un poco del meglio che forse possiamo fare nella vita è proprio saper riconoscere il bello e lodarlo, tenercelo stretto e per quel che è possibile difenderlo. Sapendo però che anche a quello si può dire addio. Magari un addio ben allestito: meglio, molto meglio, di una permanenza sterile, foriera di tedio e di logorio. E poi pensate: che cosa potrebbero mai fare di meglio, i troppi che si riempiono la bocca dei problemi dei giovani e snocciolano poi solo fasulli progetti per il loro futuro, che dare un bell’addio lasciando spazio? Sapersi fare da parte, questa è davvero un’arte. E a ben vedere è una cosa a portata di mano. Abbiamo tutto il tempo, magari dopo il caffè.
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ll mondo è pieno di gente che pretende di insegnarti a vincere. Ma colui che farà davvero la tua fortuna è quello che ti insegnerà a perdere, ricordalo”. Potrebbe essere l’incipit di un romanzetto. E invece è vita vera. Saper perdere, assorbire i colpi della sorte o degli uomini, questa è alta scuola. Perché le sconfitte possono segnare di brutto e si rischia di smarrire per sempre la voglia di lottare e di poter tornare a vincere. Il poeta diceva che la vita deve essere vissuta e non pensata. Diceva benissimo. Invece noi ci siamo abituati, da troppo tempo, a pensare la vita prima di viverla, a progettarla secondo schemi rigidi e prevedibili che vanno a pezzi alla prima difficoltà. Programmiamo la felicità, la pretendiamo, e ci stupiamo se non arriva all’ora stabilita. La verità è che pensiamo in modo mediocre e a furia di ragionarci su restiamo nel limbo, immobili. Pretenziosi senza il coraggio di rischiare, prudenti al limite del conservatorismo tremebondo e imbelle, figli di filosofie spicce e di una manualistica buona per ogni occasione, finiamo per non inventare più nulla. E così abbiamo atrofizzato il motore della creatività e della fantasia. Se fossimo nati in Giappone sapremmo almeno cos’è la nobiltà della sconfitta e quanta cultura c’è alle spalle. Ma temo che nemmeno più laggiù ormai ci credano, perché nel grande tritacarne della banalizzazione delle idee tutto viene omogeneizzato e le particolarità, che sono il sale della vita e la ricchezza del mondo, scolorano e spariscono, proprio come le mille sfumature di un prato su cui venga stesa una colata di asfalto. Abbiamo relegato le diversità nel solo campo dell’alimentazione, siamo la civiltà della gola raffinata, difendiamo con vigore e stravediamo per la tal insalatina, la caciottina ed il vinello. Ma non ci importa un fico secco di particolarità meno commerciali. Ci appassioniamo a ridicole esclusività che sono poi fenomeni di massa e ci commuovono le figurine delle biodiversità. Invece le differenze culturali, le infinite variazioni e variabili del pensiero umano ci disturbano fino a negarle o a volerle reprimere. Ma c’è un problema: il pensiero unico non aiuta a vincere ma neppure a perdere con la dovuta eleganza. Sparito il doverismo, che sarà pur stato per molti uno sciocco disvalore borghese ma ha aiutato non poco il mondo a crescere, ci siamo avviati nel meraviglioso regno del dovutismo. Quello dominato dalla divinità del grande vincente, dall’uomo e dalla donna di successo, dal diritto alla felicità minima (o massima, che è anche meglio) garantita, dalla pretesa che diventa dogma, dal voglio tutto e subito! Mia nonna, per darmi la mancetta quando ero ragazzino giocava talvolta con me a carte. Mi aveva insegnato il gioco chiamato Sette e mezzo. Lei perdeva con metodo, fingendo anche stupore per la cattiva fortuna che si procurava scientemente. Incassavo volentieri le monete e nel frattempo imparavo nuovi significati dell’arte della sconfitta e della vittoria. In un universo di allenatori della vittoria, siano benedetti quelli che ti insegnano a, e soprattutto come, perdere.
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