IL PENSIERO DEL DIRETTORE
Ecco un modo per non farci bruciare le ali come Icaro
L’universo ci attrae ma, nello stesso tempo, ci fa molta paura. L’idea che un asteroide sia in arrivo proprio in queste ore, aumenta il nostro stato di tensione che trae origine da una semplice considerazione: ci sentiamo piccoli piccoli dentro uno sterminato mondo, del quale non percepiamo che segnali inquietanti. Abbiamo una sola via d’uscita per rimetterci calmi: non ci pensiamo, continuiamo nella nostra vita di esseri terrestri e ci accontentiamo così. Inutile perderci in voli pindarici. Non abbiamo nessuna voglia di farci bruciare le ali dal sole come Icaro e così mettiamo da parte le nostre divagazioni sull’universo.
Eppure è proprio quella la nostra casa. Ci sentiamo attratti dall’incommensurabile spazio che si apre sopra le nostre teste. Rintanati nelle nostre casucce, racchiudiamo le nostre insicurezze su confortevoli divani e in accoglienti cucine dove invitiamo gli amici affinché, con i loro discorsi sulle cose di tutti i giorni, ci tengano lontani dai pensieri sul chi siamo e sul dove andremo a finire. Concetti troppo filosofici? Forse. Ragionamenti destinati a non arrivare a nulla? Può essere. Intanto però l’universo ci richiama come una calamita e ci sovviene la famosa frase dell’epitaffio sulla tomba di Immanuel Kant, colui che uccise la metafisica (in teoria) ma, negandola, le diede rinnovato vigore.
C’è scritto sul suo sepolcro a Konisberg (oggi Kaliningrad, una delle poche porte che dall’Occidente conducono nella grande madre Russia): «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me». Quante volte abbiamo sentito questa frase? Tante, troppe. I prof ce la ripetono dai tempi del liceo. Ci ha un po’ stancato ma è emblema del nostro posto nell’universo che è piccolo rispetto all’infinita immensità di ciò che ci sta intorno però è grande se raffrontato al nostro desiderio di sentirci parte di un’umanità che non può essere circoscritta al singolo individuo ma si esprime in modo esaustivo nel suo essere rispettosa di regole sociali di progresso e di civile convivenza. Che ne dimostrano, così, la sua forza e la sua sovrumana bellezza.
Siamo partiti dall’asteroide per arrivare a Immanuel Kant e l’operazione non sarà piaciuta a tutti, in particolari a quelli che speravano di aver archiviato il filosofo tedesco dopo l’esame di maturità, ritenendolo noioso e pesante. Ma lui ritorna e ci apre gli occhi – a volerlo ascoltare – sulla grandezza dell’uomo – lo ripetiamo – che è piccolo se vuole rimanere nel suo stretto guscio materiale ma si eleva alle alte vette se sceglie – e qui diventa inevitabile la citazione di Platone – di uscire dalla caverna e di andare alla conquista dell’iperuranio, di quel mondo che ci sfugge ma che ci attrae. Che non percepiamo con i nostri sensi ma che vediamo con gli occhi dell’anima. Ammesso che esista.
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Quel faro ci insegna la forza dell’amore

Chi crede (ancora) all’amore non ha che da leggere questo numero di Oltre per rimanere incantato da un simbolo che forse non tutti riconducono al sentimento (divino) che «tutto move e tutto puote». Eppure è lì, sul mare, a scatenare quello struggimento tipico di chi soffre le pene del cuore. Il simbolo è il faro perché rimanda alla distanza, alla mancanza, alla nostalgia, alla lontananza, al vorrei qualcosa di così eterno che mi sfugge.
Verrebbe da dire che l’amore è bello quando l’oggetto delle proprie attenzioni non c’è. Quando si materializza diventa tutto banale, finisce il sogno e la realtà è (sempre) più dura di quello che avevamo pensato.
Lasciamoci guidare dal faro, però, perché stavolta vogliamo farci prendere la mano dalle nostre flebili passioni. Ed è proprio il faro che il regista americano Wes Anderson ha messo nel suo film Moonrise Kingdom per evocare le atmosfere tipiche dell’amore. Ha fatto di più, ha scelto come protagonisti della storia due adolescenti proprio perché sono loro che, più di altri, riescono a stabilire il contatto con quel qualcosa che sfugge e che indicavamo all’inizio.
Suzy s’innamora di un giovane scout e insieme progettano di fuggire. L’unione dei loro cuori viene suggellata sulla spiaggia dell’isola di New Penzance, seguendo le note di Françoise Hardy (cantante, cantautrice e scrittrice francese bellissima, scomparsa pochi giorni fa: l’11 giugno) che intona, non a caso, “Le temps de l’amour”. Che c’entra il faro? Beh, è il punto di osservazione sull’isola dal quale Suzy scruta l’orizzonte sperando di vedere il suo amato perché la storia non è così semplice come potrebbe sembrare. Il rapporto tra i due ragazzi, infatti, è contrastato dai cattivi perché l’amore, si sa, prima di affermarsi, ha bisogno di combattere e di dimostrare a se stesso e agli altri che esiste davvero. Ed è negli adolescenti che trova la sua massima espressione proprio perché, come in un faro, la luce è forte, guida il tuo cammino, ma è intermittente, quindi può sparire di colpo o tornare senza nemmeno che te ne accorga.
A Wes Anderson il merito, in questo come nella maggior parte dei suoi film, di raccontare le passioni in modo molto particolare, mettendo insieme parole, musica e ambientazioni a forti tinte oniriche. In Moonrise Kingdom l’esperimento funziona e, se ancora c’è qualcuno che non ha visto questo film, farebbe bene a lasciarsi cullare da quell’ora e mezzo di raffinatezze. Tutto nasce da un faro ma attenzione: bisogna mettersi al riparo perché, alla fine del film, arriva anche un ciclone e a salvarsi è chi ci crede davvero. Così nel film di Wes Anderson, come nella nostra vita. A patto che le scelte siano sempre e solo d’amore.
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In cima alla salita ci attende il nirvana

Il ciclismo è cuore che pompa e gambe che spingono sui pedali. Una sacrificio terribile e nobile. Chi vince fa una fatica d’inferno. Di fronte a certe salite non esiste altro che lo sforzo sovrumano dell’uomo, di un uomo. Ed è naturale per noi, comuni mortali, abituati alla poltrona piuttosto che alla bicicletta, nutrire ammirazione per quegli eroi.
Proprio per santificare queste gigantesche imprese la provincia di Varese – terra di ciclismo per eccellenza – lancia una corsa che fa delle salite la quintessenza, nel solco di quella tradizione che arriva dal Belgio dove la bicicletta è un culto, anzi una religione. Dicono che quando superi certe soglie di fatica arrivi a toccare il nirvana. Io a questa storia non ho mai creduto molto perché il fisico giunge a un certo punto, poi non ce la fa più. A guardare le imprese degli scalatori che si sono susseguiti nella storia del ciclismo, però, viene da pensare che in quella parentesi spazio-temporale in cui è inserito lo sforzo massimo dell’atleta si crei un territorio in sospeso, una specie di paradiso degli eroi, gli unici ai quali è concesso di arrivare a tanto. Intanto noi, comuni mortali, continuiamo a rimanere in poltrona. A meno che, stavolta, non ci venga voglia di salire in bici e di provarci. Calma, però, non ci si può improvvisare. Occorrono giorni, mesi e anni di duro allenamento prima di affrontare salite che, solo a guardarle, ti fanno paura. Il segreto sta tutto qui. Ci vuole talento per essere un campione ma non basta. Servono dedizione, impegno e sacrificio. A tutti, dunque, è concesso di provarci. Non di vincere ma di cimentarsi in un’impresa che porta verso qualcosa di grande.
Da questi presupposti nasce la Varese Van Vlaanderen, la classica dei muri, con base a Cittiglio. Se terra di ciclismo siamo, lo dobbiamo dimostrare in questa occasione. Senza impaurirci davanti a qualcosa che ci chiede di spendere ogni goccia della nostra energia perché il sacrificio porta alla gioia, la fatica alla soddisfazione massima. Concetti difficili da far passare adesso, mentre tutti sono a caccia della gratificazione immediata. Superare una salita diventa la metafora di un modo di vivere che ti tempra verso le difficoltà e ti aiuta a superare i (tanti) scogli che la vita ti presenta. Accettare la sfida diventa, perciò, un atto di coraggio dal momento stesso in cui saliamo sulla bicicletta per le prime pedalate. Il nostro fisico dirà «no grazie» ma saremo noi a decidere di continuare perché ci muove qualcosa di grande e di unico. A meno che non sceglieremo la via breve per stare bene, quella di rimanere in poltrona. Ma siamo così sicuri che sarà quello che vogliamo davvero? La risposta sta in garage: scendiamo a prendere la bici.
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Un gelato al pistacchio tra Gattuso e Maradona

A voi la scelta: preferite i gusti cremosi o quelli di frutta? Mentre decidete sappiate che tutto ciò che direte servirà per capire il vostro carattere e le vostre inclinazioni. Spaventati davanti alla possibilità di prendervi un bel gelato rinfrescante? Forse, ma non è il caso di farsi travolgere dal panico per la lettura psicologica delle vostre preferenze. Potrebbe essere una semplice questione di palato.
A chi pace il pistacchio, magari, piace meno il limone. Chi preferisce la nocciola, non va matto per la fragola. Sul piatto della bilancia, poi, vanno messe le condizioni climatiche e atmosferiche. Con il caldo asfissiante meglio propendere per gusti freschi. Se l’atmosfera non è delle più afose (come questa strana primavera) l’attenzione è per quelle creme che trasformano il gelato in un dolce, quasi un semifreddo da assaporare come se fosse un pasticcino.
Resta l’eterno dilemma quando si arriva davanti al bancone del gelataio: più appagante lasciarsi prendere dal bacio o dal pino pinguino, oppure concedersi una carezza al palato dalla pesca e dal melone? Chi se ne intende consiglia di non fossilizzarsi mai su un gusto preciso per esplorare le novità, per scoprire le tendenze più alla moda. Si presentano, a volte, anche con i colori più sgargianti e più attraenti tipo l’azzurro del puffo. Ti catturano ma non sempre ne esci soddisfatto. Ecco, allora, che viene fuori il tradizionalista che c’è in te.
Per quanto riguarda il gelato, per esempio, basta osservare i clienti che si rivolgono al bancone: ogni due o tre ce n’è uno che chiede il pistacchio. Esagerato? Mettetevi lì e contare. Perché la gente preferisce questo frutto che, spesso e volentieri, viene fatto risalire a una città siciliana, quella di Bronte, che se dovesse essere davvero responsabile della produzione del pistacchio delle gelaterie di (quasi) tutta Italia dovrebbe essere invasa da queste piante? Semplice perché riesce a coniugare in un solo gusto il dolce e il salato. È una crema con un sapore unico che batte tutti. Nelle preferenze degli italiani riesce a mettersi dietro il cioccolato e la nocciola, altre scelte gettonatissime ma forse fin troppo convenzionali.
Il pistacchio ha una sua personalità, esce dalle convenzioni, si mantiene classico pur se unico. Insomma, è un prodigio perché sa coniugare quello che anche noi vorremmo fare tutti i giorni, cioè l’eccezionalità nella normalità. Per questo scegliamo il pistacchio quando mangiamo il gelato, perché (scendendo in campo calcistico) vorremmo essere Maradona e Gattuso al tempo stesso. Spesso, però, non riusciamo ad essere nessuno dei due. E allora ci consoliamo con un gelato. Al pistacchio, naturalmente.
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Su una barca elettrica la felicità non ha prezzo
Negli anni Ottanta era uscito un film dal titolo un po’ sguaiato ma dai buoni sentimenti. La classica commedia all’italiana a lieto fine. Si chiamava “Mi faccio la barca”, regia di Sergio Corbucci, con due protagonisti del calibro di Jonny Dorelli e di Laura Antonelli. Tutto è bene quel che finisce bene, tanto che sul mare, dopo complicate disavventure raccontate nel film, marito e moglie facevano finalmente pace e tornavano a vivere insieme. Con una barca nuova, però. Il fascino del mare e delle imbarcazioni non finisce di contagiare tutti noi. Chi non vorrebbe staccare tutto e uscire al largo con la persona che ama? La vita impone tempi e stili diversi ma resta il desiderio che, con un po’ di buona volontà e qualche soldino, si può raggiungere. Oltretutto senza inquinare. Forse non tutti sanno, infatti, che le navi da crociera sono tra i maggiori responsabili della cattiva salute del mare. Ma come si fa a fermarle? Non si può. Non resta che optare per qualcosa di diverso e il mercato permette di far combaciare il desiderio di libertà con la sostenibilità ambientale. Basta comprare una barca elettrica. Certo, non è tutto così facile. Ma questo tipo di imbarcazioni sta pian piano conquistando fette di mercato e non va preso sotto gamba. È il futuro, è il necessario approdo di un settore che deve fare i conti con la trasformazione ambientale e che vuole rispondere a dovere alle sfide del futuro. Ma chi potrà concedersi queste imbarcazioni? La risposta è difficile. Per il momento riescono a concedersi un lusso del genere solo i ricchi, però non bisogna demoralizzarsi. Pensate che bello che sarebbe uscire sulle acque dei mari o del lago su mezzi non rumorosi e non inquinanti. Un vero paradiso, i cui dettagli verranno spiegati in occasione dell’Electric Boat Show di Laveno Mombello. Non pensino, quelli che hanno pochi soldi, di rimanere a bocca asciutta. Nella nostra società nessuno deve rimanere indietro, neppure quelli che amano l’acqua e non hanno abbastanza capitali in banca. Ci sono formule di finanziamento da valutare con tanta cura perché il risultato è in linea con le aspettative. Utilizzare una barca elettrica appaga la naturale attrazione che tutti noi abbiamo nei confronti dell’acqua e ci permette di non sentirci in colpa perché non buttiamo idrocarburi dentro l’acqua. Non resta, dunque, che iniziare a risparmiare perché il gioco, in questo caso, vale la candela. Recuperare il nostro rapporto con l’acqua è la strada maestra per essere felice: un obiettivo che non ha prezzo..
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Tra hamburger del futuro e consigli della nonna
L’hamburger del futuro pone il tema su cosa mangeremo un domani. Già su questo giornale abbiamo parlato non tanto tempo fa della farina di grilli e di altre diavolerie che stanno entrando con sempre maggiore convinzione sul mercato alimentare italiano. Quindi non dobbiamo più stupirci di nulla: le abitudini cambiano e, pure sul cibo, la società evolve. Per arrivare dove? Nessuno lo sa.
L’hamburger è un simbolo per l’alimentazione del nostro millennio. Ne abbiamo fatto uso e abuso finché non ci è salita una specie di rimorso di coscienza perché ci siamo resi conto che questo tipo di alimentazione provocava guasti a noi stessi e al pianeta. Nulla contro la carne, sia chiaro. Lungi da noi la necessità di omologarci con l’impostazione talebana dei peggiori vegani (quelli ragionevoli hanno molte ragioni) ma è ormai evidente a tutti che si è esagerato in questi ultimi decenni con la carne. E l’hamburger del fast food ne è diventato emblema. Levarlo del tutto di torno pare ormai un crimine. E soprattutto facciamo molta fatica a modificare le nostre abitudini per rispondere alle esigenze della collettività e della difesa del pianeta. Troviamo allora delle alternative. L’hamburger del futuro non è fatto di carne ma mette insieme gustosi ingredienti in una ricetta che ha lo scopo di allettare il palato senza distruggere l’universo.
È il primo passo verso l’alimentazione del futuro? Probabilmente sì. Anzi, siamo già dentro questo nuovo mondo anche se non vogliamo accorgercene. Andiamo a larghi passi verso la carne sintetica e altre diavolerie del genere che ci permetteranno di rendere il nostro mondo sostenibile ai miliardi di abitanti che lo popolano. Scelta inevitabile, dunque, quella di modificare il nostro cibo. Ma potrebbe non essere quella giusta. Massimo rispetto per l’hamburger del futuro, per il suo profumo particolare e per il sapore di funghi ma, forse, per salvare l’ambiente che ci circonda non è sufficiente. È necessario, invece, guardare indietro per portarsi avanti.
Una contraddizione? No di certo. L’obiettivo è di tornare alle vecchie abitudini alimentari, quelle che ci facevano mangiare la carne una volta al mese. O, se andava bene, una volta alla settimana. Per il resto serviva cibo sano e non costruito artificialmente in laboratorio: molti legumi, verdura e nulla di sofisticato. Dieta povera? Assolutamente no. Si scrivono libri su libri per testimoniare che il tipo di alimentazione mediterranea è quello giusto. Non resta, dunque, che mettere in pratica i preziosi consigli della nonna. Saranno più buoni dell’hamburger del futuro.