IL PENSIERO DEL DIRETTORE
In cima alla salita ci attende il nirvana
Il ciclismo è cuore che pompa e gambe che spingono sui pedali. Una sacrificio terribile e nobile. Chi vince fa una fatica d’inferno. Di fronte a certe salite non esiste altro che lo sforzo sovrumano dell’uomo, di un uomo. Ed è naturale per noi, comuni mortali, abituati alla poltrona piuttosto che alla bicicletta, nutrire ammirazione per quegli eroi.
Proprio per santificare queste gigantesche imprese la provincia di Varese – terra di ciclismo per eccellenza – lancia una corsa che fa delle salite la quintessenza, nel solco di quella tradizione che arriva dal Belgio dove la bicicletta è un culto, anzi una religione. Dicono che quando superi certe soglie di fatica arrivi a toccare il nirvana. Io a questa storia non ho mai creduto molto perché il fisico giunge a un certo punto, poi non ce la fa più. A guardare le imprese degli scalatori che si sono susseguiti nella storia del ciclismo, però, viene da pensare che in quella parentesi spazio-temporale in cui è inserito lo sforzo massimo dell’atleta si crei un territorio in sospeso, una specie di paradiso degli eroi, gli unici ai quali è concesso di arrivare a tanto. Intanto noi, comuni mortali, continuiamo a rimanere in poltrona. A meno che, stavolta, non ci venga voglia di salire in bici e di provarci. Calma, però, non ci si può improvvisare. Occorrono giorni, mesi e anni di duro allenamento prima di affrontare salite che, solo a guardarle, ti fanno paura. Il segreto sta tutto qui. Ci vuole talento per essere un campione ma non basta. Servono dedizione, impegno e sacrificio. A tutti, dunque, è concesso di provarci. Non di vincere ma di cimentarsi in un’impresa che porta verso qualcosa di grande.
Da questi presupposti nasce la Varese Van Vlaanderen, la classica dei muri, con base a Cittiglio. Se terra di ciclismo siamo, lo dobbiamo dimostrare in questa occasione. Senza impaurirci davanti a qualcosa che ci chiede di spendere ogni goccia della nostra energia perché il sacrificio porta alla gioia, la fatica alla soddisfazione massima. Concetti difficili da far passare adesso, mentre tutti sono a caccia della gratificazione immediata. Superare una salita diventa la metafora di un modo di vivere che ti tempra verso le difficoltà e ti aiuta a superare i (tanti) scogli che la vita ti presenta. Accettare la sfida diventa, perciò, un atto di coraggio dal momento stesso in cui saliamo sulla bicicletta per le prime pedalate. Il nostro fisico dirà «no grazie» ma saremo noi a decidere di continuare perché ci muove qualcosa di grande e di unico. A meno che non sceglieremo la via breve per stare bene, quella di rimanere in poltrona. Ma siamo così sicuri che sarà quello che vogliamo davvero? La risposta sta in garage: scendiamo a prendere la bici.
IL PENSIERO DEL DIRETTORE
Un gelato al pistacchio tra Gattuso e Maradona
A voi la scelta: preferite i gusti cremosi o quelli di frutta? Mentre decidete sappiate che tutto ciò che direte servirà per capire il vostro carattere e le vostre inclinazioni. Spaventati davanti alla possibilità di prendervi un bel gelato rinfrescante? Forse, ma non è il caso di farsi travolgere dal panico per la lettura psicologica delle vostre preferenze. Potrebbe essere una semplice questione di palato.
A chi pace il pistacchio, magari, piace meno il limone. Chi preferisce la nocciola, non va matto per la fragola. Sul piatto della bilancia, poi, vanno messe le condizioni climatiche e atmosferiche. Con il caldo asfissiante meglio propendere per gusti freschi. Se l’atmosfera non è delle più afose (come questa strana primavera) l’attenzione è per quelle creme che trasformano il gelato in un dolce, quasi un semifreddo da assaporare come se fosse un pasticcino.
Resta l’eterno dilemma quando si arriva davanti al bancone del gelataio: più appagante lasciarsi prendere dal bacio o dal pino pinguino, oppure concedersi una carezza al palato dalla pesca e dal melone? Chi se ne intende consiglia di non fossilizzarsi mai su un gusto preciso per esplorare le novità, per scoprire le tendenze più alla moda. Si presentano, a volte, anche con i colori più sgargianti e più attraenti tipo l’azzurro del puffo. Ti catturano ma non sempre ne esci soddisfatto. Ecco, allora, che viene fuori il tradizionalista che c’è in te.
Per quanto riguarda il gelato, per esempio, basta osservare i clienti che si rivolgono al bancone: ogni due o tre ce n’è uno che chiede il pistacchio. Esagerato? Mettetevi lì e contare. Perché la gente preferisce questo frutto che, spesso e volentieri, viene fatto risalire a una città siciliana, quella di Bronte, che se dovesse essere davvero responsabile della produzione del pistacchio delle gelaterie di (quasi) tutta Italia dovrebbe essere invasa da queste piante? Semplice perché riesce a coniugare in un solo gusto il dolce e il salato. È una crema con un sapore unico che batte tutti. Nelle preferenze degli italiani riesce a mettersi dietro il cioccolato e la nocciola, altre scelte gettonatissime ma forse fin troppo convenzionali.
Il pistacchio ha una sua personalità, esce dalle convenzioni, si mantiene classico pur se unico. Insomma, è un prodigio perché sa coniugare quello che anche noi vorremmo fare tutti i giorni, cioè l’eccezionalità nella normalità. Per questo scegliamo il pistacchio quando mangiamo il gelato, perché (scendendo in campo calcistico) vorremmo essere Maradona e Gattuso al tempo stesso. Spesso, però, non riusciamo ad essere nessuno dei due. E allora ci consoliamo con un gelato. Al pistacchio, naturalmente.
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Su una barca elettrica la felicità non ha prezzo
Negli anni Ottanta era uscito un film dal titolo un po’ sguaiato ma dai buoni sentimenti. La classica commedia all’italiana a lieto fine. Si chiamava “Mi faccio la barca”, regia di Sergio Corbucci, con due protagonisti del calibro di Jonny Dorelli e di Laura Antonelli. Tutto è bene quel che finisce bene, tanto che sul mare, dopo complicate disavventure raccontate nel film, marito e moglie facevano finalmente pace e tornavano a vivere insieme. Con una barca nuova, però. Il fascino del mare e delle imbarcazioni non finisce di contagiare tutti noi. Chi non vorrebbe staccare tutto e uscire al largo con la persona che ama? La vita impone tempi e stili diversi ma resta il desiderio che, con un po’ di buona volontà e qualche soldino, si può raggiungere. Oltretutto senza inquinare. Forse non tutti sanno, infatti, che le navi da crociera sono tra i maggiori responsabili della cattiva salute del mare. Ma come si fa a fermarle? Non si può. Non resta che optare per qualcosa di diverso e il mercato permette di far combaciare il desiderio di libertà con la sostenibilità ambientale. Basta comprare una barca elettrica. Certo, non è tutto così facile. Ma questo tipo di imbarcazioni sta pian piano conquistando fette di mercato e non va preso sotto gamba. È il futuro, è il necessario approdo di un settore che deve fare i conti con la trasformazione ambientale e che vuole rispondere a dovere alle sfide del futuro. Ma chi potrà concedersi queste imbarcazioni? La risposta è difficile. Per il momento riescono a concedersi un lusso del genere solo i ricchi, però non bisogna demoralizzarsi. Pensate che bello che sarebbe uscire sulle acque dei mari o del lago su mezzi non rumorosi e non inquinanti. Un vero paradiso, i cui dettagli verranno spiegati in occasione dell’Electric Boat Show di Laveno Mombello. Non pensino, quelli che hanno pochi soldi, di rimanere a bocca asciutta. Nella nostra società nessuno deve rimanere indietro, neppure quelli che amano l’acqua e non hanno abbastanza capitali in banca. Ci sono formule di finanziamento da valutare con tanta cura perché il risultato è in linea con le aspettative. Utilizzare una barca elettrica appaga la naturale attrazione che tutti noi abbiamo nei confronti dell’acqua e ci permette di non sentirci in colpa perché non buttiamo idrocarburi dentro l’acqua. Non resta, dunque, che iniziare a risparmiare perché il gioco, in questo caso, vale la candela. Recuperare il nostro rapporto con l’acqua è la strada maestra per essere felice: un obiettivo che non ha prezzo..
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Tra hamburger del futuro e consigli della nonna
L’hamburger del futuro pone il tema su cosa mangeremo un domani. Già su questo giornale abbiamo parlato non tanto tempo fa della farina di grilli e di altre diavolerie che stanno entrando con sempre maggiore convinzione sul mercato alimentare italiano. Quindi non dobbiamo più stupirci di nulla: le abitudini cambiano e, pure sul cibo, la società evolve. Per arrivare dove? Nessuno lo sa.
L’hamburger è un simbolo per l’alimentazione del nostro millennio. Ne abbiamo fatto uso e abuso finché non ci è salita una specie di rimorso di coscienza perché ci siamo resi conto che questo tipo di alimentazione provocava guasti a noi stessi e al pianeta. Nulla contro la carne, sia chiaro. Lungi da noi la necessità di omologarci con l’impostazione talebana dei peggiori vegani (quelli ragionevoli hanno molte ragioni) ma è ormai evidente a tutti che si è esagerato in questi ultimi decenni con la carne. E l’hamburger del fast food ne è diventato emblema. Levarlo del tutto di torno pare ormai un crimine. E soprattutto facciamo molta fatica a modificare le nostre abitudini per rispondere alle esigenze della collettività e della difesa del pianeta. Troviamo allora delle alternative. L’hamburger del futuro non è fatto di carne ma mette insieme gustosi ingredienti in una ricetta che ha lo scopo di allettare il palato senza distruggere l’universo.
È il primo passo verso l’alimentazione del futuro? Probabilmente sì. Anzi, siamo già dentro questo nuovo mondo anche se non vogliamo accorgercene. Andiamo a larghi passi verso la carne sintetica e altre diavolerie del genere che ci permetteranno di rendere il nostro mondo sostenibile ai miliardi di abitanti che lo popolano. Scelta inevitabile, dunque, quella di modificare il nostro cibo. Ma potrebbe non essere quella giusta. Massimo rispetto per l’hamburger del futuro, per il suo profumo particolare e per il sapore di funghi ma, forse, per salvare l’ambiente che ci circonda non è sufficiente. È necessario, invece, guardare indietro per portarsi avanti.
Una contraddizione? No di certo. L’obiettivo è di tornare alle vecchie abitudini alimentari, quelle che ci facevano mangiare la carne una volta al mese. O, se andava bene, una volta alla settimana. Per il resto serviva cibo sano e non costruito artificialmente in laboratorio: molti legumi, verdura e nulla di sofisticato. Dieta povera? Assolutamente no. Si scrivono libri su libri per testimoniare che il tipo di alimentazione mediterranea è quello giusto. Non resta, dunque, che mettere in pratica i preziosi consigli della nonna. Saranno più buoni dell’hamburger del futuro.
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La paura da sconfiggere è dentro di te. Vero Dennis?
La letteratura “aerea” è piena zeppa di casi di persone che hanno paura di volare. Le statistiche parlano del 50% della popolazione che ha questo tipo di problema. Chi più chi meno, ma tutta questa grande fetta di viaggiatori soffre a mettere piede sulla scaletta che li porterà dentro l’aeromobile.
Non pensavamo fossero così tanti gli aerofobici, invece è così. Ci ricordiamo però di alcuni esempi sportivi, per esempio quello di Dennis Bergkamp, calciatore olandese che deliziò (non sempre) i tifosi interisti prima di passare all’Arsenal dove sottoscrisse un contratto in cui si poneva come clausola essenziale, quella di non salire in aereo. Era il 1995 e quella firma diventò storica proprio perché tenne al riparo il centrocampista e attaccante orange dalla sua fottutissima paura per il volo. Ma lo costrinse pure a faticose trasferte su quattro ruote per non venire meno ai suoi impegni.
Pare che la sua resistenza a salire in aereo nacque in età giovanile, quando il velivolo che passava dalle parti dell’Etna ebbe alcune turbolenze che lo spaventarono così tanto da tenerlo alla larga dal volo per molto tempo. Ma per un campione del suo calibro è impossibile non prevedere qualche lungo viaggio. Terrorizzante. Bisogna, allora, capire come sconfiggere questa fobia. Bergkamp ci avrà provato in tutti i modi, senza però raggiungere il risultato sperato. Ma ci sono centinaia di tecniche e numerosi corsi per combattere il timore del volo. Ed è giusto parlarne mentre ci avviciniamo al periodo delle vacanze, quello in cui diventa più facile e più frequente imbarcarsi su un apparecchio per raggiungere le mete agognate da tutto l’anno.
Primo consiglio, dunque, è quello di rafforzare la motivazione. Se per Bergkamp non era sufficiente pensare che sarebbe sceso in campo in una partita importante per il suo Arsenal, per chi vuole sconfiggere l’aerofobia diventa essenziale focalizzarsi sulla spiaggia assolata o sul luogo incantato dove si è diretti in vacanza. Il bello del dopo può far superare il brutto del prima. Ma non è ancora sufficiente per sconfiggere quella tenaglia che ti assale e che ti sviluppa un’intensa sudorazione, oltre al battito cardiaco accelerato e a episodi di vomito. Per raggiungere lo scopo, oltre che focalizzarsi sull’obiettivo, serve concentrarsi su stessi, sulla propria capacità di reagire a ciò che non ci piace. Se ci pensate bene questa è la molla che ci motiva spesso, di fronte a impegni gravosi o a cose che non vogliamo fare. La forza, dunque, sta in noi. Ce ne dobbiamo rendere conto per mettere in pratica quella frase che ci rimbomba in testa da quando, per la prima volta, abbiamo visto al cinema Star Wars: «Che la forza sia con te». Anche – anzi soprattutto – in volo.
IL PENSIERO DEL DIRETTORE
La bellezza fa passare stanchezza e fatica
La montagna regala sensazioni uniche. Ha sempre esercitato un fascino attrattivo senza eguali, ma oggi forse di più perché è forte l’esigenza di stare un po’ in pace rispetto a una vita frenetica e convulsa. Non stupisce, allora, che i rifugi diventino mete privilegiate di sempre più numerose escursioni, oasi di pace dentro un mondo che Roberto Vannacci definirebbe al contrario. Ma senza scomodare (non sia mai) il generale e ora candidato alle Europee per la Lega, è sempre più sentita la necessità di evadere e di puntare verso l’alto, verso quelle cime che caratterizzano la variegata geografia italiana, verso quelle valli che permettono di stare un po’ in pace con se stessi, felici di aver raggiunto la meta.
Non c’è soddisfazione più grande, infatti, di raggiungere un rifugio dopo ore di cammino. È vero, ce ne sono di tutti i tipi. Si può arrivare al dunque utilizzando gli impianti o, per i più scaltri e meno abituati alla fatica, è possibile salire su un elicottero che ti porta a destinazione. Ma che gusto c’è? La montagna è metafora della vita, secondo la quale, per arrivare a raggiungere dei risultati, te li devi sudare. Non sono ammesse scorciatoie.
Forse proprio per questo sta prendendo forma una specie di Booking dei rifugi, perché la domanda aumenta e i posti sono quelli che sono. Va bene faticare in salita, nulla contro l’acido lattico che ti si accumula nei muscoli mentre percorri i sentieri più impervi, ma tutto ciò viene dimenticato facendo una bella sosta davanti a una tazza di cioccolata calda e, magari, di un bombardino con panna. Ma se la sosta non c’è? Se il posto è già occupato, che si fa? Senza premio finale, viene meno anche la voglia di fare fatica. E dunque passa la voglia di andare in montagna. Per cui il Cai si organizza e lancia una piattaforma il più possibile completa e condivisa. E tutto torna. Pure le prenotazioni aumentano. Di pari passo con il desiderio di evadere.
Resta da capire, allora, quale sia la molla che induce un numero sempre maggiore di turisti a salire in montagna? Qualche indizio lo abbiamo già fornito nella prima parte dell’articolo, senza entrare nel merito dell’altra motivazione forte che guida la rincorsa ai rifugi. Ci sta la soddisfazione dopo la fatica come metafora degli sforzi di ognuno di noi per raggiungere gli obiettivi che contano nella vita, ma c’è una ragione ancora più primordiale che muove gli escursionisti verso le loro mete, ed è la voglia di bellezza. Salire in montagna permette di essere dentro panorami mozzafiato, di fronte a opere straordinarie della natura che lasciano estasiati anche i meno avvezzi a farsi prendere la mano dalle emozioni. Le scelte della nostra vita, nella maggior parte dei casi, sono sempre indirizzate alla bellezza, come in montagna. E anche a costo di un po’ di fatica. Ma ne vale la pena.