#Oltre n°2/2024 | Dalle bacche alla carne. L’importante che ci piaccia

#Oltre n°2/2024 | Dalle bacche alla carne. L’importante che ci piaccia

Dalle bacche alla carne. L’importante che ci piaccia

Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei. Partendo da questo presupposto fa una certa specie pensare all’uomo delle caverne che aveva un’alimentazione del tutto differente dalla nostra. Bacche, tuberi e persino insetti erano i cibi preferiti da chi viveva nel paleolitico. Da allora ad oggi c’è stata una certa evoluzione. Ogni progresso ha portato a una dieta differente. Dalla condizione di nomadismo, quindi, si è passati alla fase stanziale in cui tutto è cambiato dal punto di vista del cibo. Alla caccia si sono affiancate le attività di coltivazione e di allevamento che hanno permesso ai cavernicoli di evolversi sia nei gusti sia nelle abitudini nutrizionali. Dalle radici e dai prelievi di elementi naturali dalle carcasse degli animali si è così passati a un’alimentazione, almeno alla lontana, più simile alla nostra. Mai, però, è venuto meno un principio che ci accompagna a distanza di migliaia di anni e da quanto facevano i nostri antenati: la ricerca di beni che ci nutrano e ci facciano provare piacere.

L’evoluzione delle diete è ora arrivata al punto che, talmente sono particolari ed elaborate, a volte si perdono di vista questi due elementi cardine. E non va bene. Proprio per questo hanno successo le scuole di pensiero che privilegiano il cibo per il ritorno alle origini e il recupero della natura. In questo contesto va interpretata la sempre più frequente scelta di passare ad abitudini alimentari vegetariane. Lo erano i nostri avi, perché non lo possiamo essere noi? Come si diceva il regime nutrizionale è figlio dei tempi. Stringendo la lente d’ingrandimento su un periodo meno vasto di quello primitivo e arrivando fino ai giorni nostri si comprende, allora, molto bene che scegliere la carne è un retaggio figlio del boom economico, emblema piuttosto scontato del consumismo imperante. Lettura ideologica della realtà o spiegazione vera di ciò che è avvenuto dal dopoguerra ad oggi? Come sempre accade, la verità sta nel mezzo. Da una parte c’è il condizionamento sociale, dall’altro si pone un dato oggettivo che tutti noi sperimentiamo quando andiamo a tavola: la carne è buona, perché dobbiamo privarcene? Si torna, dunque, da dove si è partiti: l’alimentazione serve per il sostentamento ma pure perché ci dà piacere. Se la carne risponde a questo nostro desiderio possiamo continuare a mangiarla. Con misura, ma senza auto-imporci diete che non fanno per noi. Se invece abbiamo deciso di essere come Socrate o come Plutarco, come Leonardo o come (in tempi vicini ai nostri) Albert Einstein, allora, dedichiamoci a ciò che già i cavernicoli avevano sperimentato. Ovvero: vegetali di tutti i tipi. E (forse) anche gli insetti. Dicono che siano di moda (e ne abbiamo già parlato in qualche numero fa di Oltre) perché, come ci ricordano sempre gli antichi: de gustibus non disputandum est. Ecco.

#Oltre n°2/2024 | Dalle bacche alla carne. L’importante che ci piaccia

#Oltre n°1/2024 | Quando i social diventano un’occasione di conoscenza

Quando i social diventano un’occasione di conoscenza

I social fanno parte della nostra vita. Inutile negarlo. Inutile e controproducente scatenare delle battaglie contro. Inevitabile sarebbe la disfatta.

Di questi concetti sono convinti un po’ tutti, anche le schiere di boomer che si adattano alla bisogna e spesso fanno dei gran disastri. Ma va bene così. Non si può imparare a nuotare senza buttarsi in acqua, come non è giusto e non è corretto sentenziare su un mondo che non si conosce. Quello che fa la differenza, come per tutti gli strumenti creati dall’uomo, è l’uso. Anche l’automobile è un pericolo se si va a 200 all’ora in una strada a curve (ammesso che si riesca). Così i social diventano rischiosi – anzi dannosi – se l’uso viene trasformato in abuso, se non si comprende il confine che esiste tra mondo reale e virtuale, mischiando tutto quanto.

Il gallaratese Marco Pangallo – alle pagine 8 e 9 di quest’edizione di Oltre – dimostra come si possano utilizzare i social per portare un mondo considerato per gente di una certa età ai più giovani. Operazione che dimostra come, nella nostra società, spesso il medium (come lo chiamava il semiologo Marshall McLuhan) è il messaggio. Ovvero, il contenuto (in questo caso l’opera lirica) assume rilievo nel momento in cui viene veicolato con il mezzo giusto (in tal caso su Instagram). In apparenza, tutto questo meccanismo – al giorno d’oggi – sembra scontato, quasi ovvio. Ma non è così. Tanto è vero che, quando l’influencer gallaratese ci ha pensato e lo ha messo in atto, subito ha attirato schiere di followers. Che, volentieri, si avvicinano a una realtà abituata ad altri metodi di comunicazione. Avviene per la lirica, ma può essere valido anche per altri campi.

Ritorna, dunque, la domanda sull’uso dei social e qui si entra nel vivo della questione perché non è che tutti quelli che frequentano Instagram lo fanno per conoscere e per capire, perché amano la lirica o perché vogliono entrare in questo magico mondo grazie ai consigli di Pangallo. Spesso ha la meglio la sola componente di leggerezza, Ovvero, si frequentano i social per passare il tempo. Ci sta, a patto che non diventi un’abitudine. Essere rimbalzati da un contenuto all’altro rischia, infatti, di fare male ai meccanismi recettivi del nostro cervello (che disimparano l’attenzione) e di creare dipendenza. Dunque, cari boomer, non resta che affidarsi a Instagram a piccole dosi e su contenuti che non inquinino la nostra sfera cognitiva. Consiglio che vale per chi ha una certa età ma pure (soprattutto) per i giovanissimi che sono convinti di sapere tutto ma, magari, non si rendono conto del rischio di guidare l’auto a 200 all’ora. Basta spiegarlo loro. E farli innamorare più che dei prodotti che pubblicizza Chiara Ferragni dell’opera lirica presentata da Marco Pangallo.

 

#Oltre n°2/2024 | Dalle bacche alla carne. L’importante che ci piaccia

#Oltre n°44/2023 | Se Natale non ti piace festeggia il 23 dicembre

Se Natale non ti piace festeggia il 23 dicembre

Tutti zitti perché sta per arrivare il periodo più bello (o più brutto) dell’anno. È ormai iniziato il conto alla rovescia verso Natale che porta con sé diversi altri giorni di festa, a partire dalla Vigilia. Che è poi il momento più importante di questa divertentissima (o scocciantissima) maratona di amici, parenti, mangiate, spumante, panettone, pandoro, lustrini e lucine che ormai vanno di moda.

La Vigilia è sempre il meglio perché è come la vita: ti aspetti chissà cosa, poi ci sei dentro e ti accorgi che sono più le delusioni delle soddisfazioni. Sarà perché veniamo da una formazione cattolica che ci ha inculcato in testa sin da bambini che siamo «esuli figli di Eva, gementi e piangenti in questa valle di lacrime», ma spesso siamo capaci di assaporare solo il gusto amaro delle cose. Allora ci rifugiamo nell’illusione che tutto migliori e quindi ci piace di più l’attesa del traguardo raggiunto. Così pure nell’amore, viviamo il periodo più intenso proprio nei tormenti del piacere al nostro amato. Poi quando lo conquistiamo già non ci interessa più. Siamo presi dalla (o dallo) Sturm und Drang che ci divora ogni cellula finché non raggiungiamo il nostro obiettivo. È una sensazione bella e brutta allo stesso tempo, ma breve e fugace. Sparisce in fretta perché veniamo divorati dalla sindrome del: «Tutto qui?».

Sarà che viviamo in un’epoca sazia, anzi ingorda. Probabilmente questo ci annebbia non solo la pancia, anche il cervello. Ma non è una critica. Non si tratta di un giudizio morale, solo di una piccola constatazione. È molto più potente l’attesa della conquista. Non è che l’abbiamo inventato noi, d’altronde. Lo spiegava molto bene il poeta Giacomo Leopardi nella poesia “Il sabato del villaggio” e l’hanno analizzato con dovizia di particolari valanghe di filosofi e di scrittori di tutte le epoche. Per questo godiamoci l’attesa dell’attesa, cioè questi giorni che portano alla Vigilia di Natale. Proviamo a pensare che quest’anno potrebbe essere tutto diverso. Che non si trasformerà tutto in quella noia che aveva cantato Franco Califano in un suo famoso album. Insomma, teniamoci stretta almeno la Vigilia con tutto il suo carico di bellezza ma anche di fatica perché bisogna comprare gli ultimi regali, fare visita agli amici per portare loro almeno un pensierino, organizzare la cena con i parenti e, magari, aggiungerci anche la messa di Mezzanotte. Un bel tour de force che finisce per farci dimenticare che quel giorno avrebbe potuto essere – considerati i presupposti di cui si diceva poco sopra – il più bello dell’anno.

Una scappatoia, però, potremmo trovarla. Godiamoci la vigilia della vigilia cioè il 23 dicembre. Quest’anno cade di sabato. Quindi potrebbe essere il giorno giusto per fare pace con noi e con il mondo. Per un giorno solo, però.

 

#Oltre n°2/2024 | Dalle bacche alla carne. L’importante che ci piaccia

#Oltre n°43/2023 | Non c’è Natale senza panettone (anzi torrone)

Non c’è Natale senza panettone (anzi torrone)

Sarà anche il dolce tradizionale di Milano a Natale ma il panettone è ormai circondato da un nugolo di avversari, di altri dolci che gli fanno concorrenza. E non si tratta del Christmas Pudding, tanto sponsorizzato in terra britannica. Ci sono ben altre prelibatezze che fanno a gara con quel tipico simbolo delle feste che ci ha però un po’ stancato. I puristi si arrabbieranno perché non esiste Natale senza panettone ma che dire del pandoro? Bello, dolce, morbido e profumato, senza quei canditi che ti si attaccano ai denti. Questione di gusti. È come chiedere a un bambino se vuole più bene alla mamma o al papà. Ma pandoro e panettone competono ad armi pari sulle nostre tavole e rischiano di farci dimenticare il vero re delle feste. Quel dolce tanto amato dai dentisti perché, se non si sta attenti, rischia di causare qualche danno ai nostri molari già messi a dura prova da un’alimentazione non sempre irreprensibile. Il migliore è lui, e scusate se lo tratto quasi se fosse un essere animato ma non posso non mostrargli amore e ammirazione.

Sua maestà il torrone merita il primo posto nell’ideale classifica dei dolci di Natale. Mi raccomando, però, non quello molliccio che ci viene propinato in certi supermercati di seconda scelta. Il torrone deve essere tosto e dolcissimo. Mandorle, zucchero, miele: solo a scrivere gli ingredienti viene voglia di assaggiare questo straordinario prodotto italiano. Tipico di Cremona ma molto diffuso in tutta Italia e soprattutto al Sud, dove si mangia insieme alla cubata, altro buonissimo dolce di Natale. L’origine di quest’ultima viene fatta risalire agli arabi. Questo insieme di mandorle e glassa dolce non sempre viene chiamata così ma condivide con il torrone la medesima caratteristica: se non la maneggi con cura rischia di distruggerti i denti.

Insomma, panettone e pandoro sono prodotti per mammolette. Chi vuole assaporare il gusto strong del Natale deve passare ad altro. E ne trarrà grandi soddisfazioni. Senza, naturalmente, prendersi troppo sul serio perché ognuno, come si diceva prima, ha i suoi gusti ed è giusto che sulla tavola di Natale scelga ciò che più preferisce. Lunga vita, dunque, al panettone. Che sembra tornato di moda dopo aver passato un periodo di forte crisi. Negli anni Settanta fu una sfida ad armi pari tra Motta e Alemagna per prendersi un tipico primato milanese. Ormai ci sono panettoni di tutte le marche e di tutti i gusti, con farciture e cremine che, in alcuni casi, fanno venire il voltastomaco. Fatto sta che la crisi di qualche tempo fa è stata superata. La varietà dei prodotti ha aumentato la scelta di panettoni anche se si può sempre cambiare abitudine. Che Natale sarebbe, infatti, senza il torrone?

 

#Oltre n°2/2024 | Dalle bacche alla carne. L’importante che ci piaccia

#Oltre n°42/2023 | Quegli errori che ci aiutano a scoprire la verità

Quegli errori che ci aiutano a scoprire la verità

Noi siamo convinti che la nostra vita proceda su una linea regolare e prevedibile. Ci impegniamo a programmare il nostro futuro e a provare a modellarlo a nostro uso e consumo. Nulla di più sbagliato. I migliori risultati, di solito, nascono dai nostri errori.

Una lezione in proposito ci arriva dalla cucina. E lo spieghiamo con ricchezza di particolari alle pagine 12 e 13. Scopriamo, perciò, che alcune delle ricette per i piatti e per i dolci più buoni sono nate da inesattezze o addirittura da marchiane gaffes nell’esecuzione della pietanza. Dal campo culinario è abbastanza semplice trasferirsi in quello esistenziale o, addirittura, scientifico. C’è una corrente della filosofia, meglio dell’epistemologia, che spiega come le teorie sulle quali si basa il mondo siano facilmente falsificabili (Karl Popper), cioè può valere l’esatto contrario di quello che si sostiene. Meglio non chiamare in causa i cosiddetti terrapiattisti perché si finirebbe con facilità dentro un ginepraio dal quale diventerebbe difficile districarsi, ma è a tutti noto che fu Galileo a dimostrare che la terra girasse intorno al Sole. Fino a quel momento (siamo nel Seicento) valeva un altro paradigma che lo stesso scienziato fu costretto ad accettare, salvo andarsene in esilio non prima di aver pronunciato la famosa frase «eppur si muove», che gli valse l’abiura della Chiesa.

Non so se questa ricostruzione sia esatta nei termini ma lo è nei contenuti. In questo caso non è stato un errore a determinare un progresso scientifico ma la capacità, da parte dello scienziato, di mettere in discussione tutte le conoscenze dell’epoca per far sì che il cammino di evoluzione dell’uomo si accrescesse. Ed è esattamente quello che ci insegnano le ricette sbagliate. Dimostrano in cucina quello che l’epistemologo Thomas Kuhn nel suo libro “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” ha cercato di spiegare. Se non si ha l’ardire di mettere in discussione i paradigmi esistenti, non si riesce ad arrivare alla risoluzione dei problemi, anche a costo di sbagliare. A volte, proprio quell’errore apre una via che ci permette di progredire.

Diciamo che non c’era bisogno di Thomas Kuhn per arrivare a queste conclusioni. Già il filosofo presocratico Eraclito aveva riassunto il concetto nella famosa frase – citata tra l’altro da un cabarettista che andava di moda una trentina di anni fa – che recita: «Chi non si aspetta l’impossibile, non scoprirà la verità». Bisogna fare tesoro di questa massima, non solo in cucina ma nella vita di tutti i giorni. Magari non scopriremo gli archetipi che reggono il mondo ma almeno non rimarremo delusi. E – credetemi – è già qualcosa.

#Oltre n°2/2024 | Dalle bacche alla carne. L’importante che ci piaccia

#Oltre n°41/2023 | Il lato oscuro della Luna ce lo spiegano i Pink Floyd

Il lato oscuro della Luna ce lo spiegano i Pink Floyd

C’era una volta Frate Indovino.

E c’è ancora. Ma forse ha perso quell’importanza che aveva per i nostri nonni e per i nostri zii. Lo consultavano spesso.

Era una specie di bibbia per chi aveva l’orto. Ci azzeccava sulle previsioni del tempo anche se erano fatte con nettissimo anticipo. Ma, soprattutto, mostrava le fasi lunari. Per qualsiasi attività collegata alla natura era opportuno attenersi alle sue regole.

Non esisteva Internet. E Google faceva parte di uno di quei sogni ricorrenti degli uomini che, proiettati nella realtà, sarebbero in seguito diventati incubi. Quindi era meglio affidarsi a Frate Indovino, ai suoi preziosi consigli e ai cicli della natura. Le fasi erano ben definite, non regnava la confusione, non c’erano punti di vista diversi che si scontravano. Se la terra andava zappata in un determinato periodo, per gettare i semi bisognava attendere un altro momento dell’anno. Era sempre la Luna a decidere per noi. Ogni contadino si sentiva protetto dentro questo schema fisso.
Sapeva che avrebbe avuto più garanzie di successo, rispettando tempi e modalità dettate dal satellite più importante della Terra.

Ciò non significava, però, mettersi del tutto al riparo dagli imprevisti.
Purtroppo non era possibile sapere con precisione l’arrivo di un’acquazzone o i lunghi periodi di siccità. Ma almeno si poteva avere un’attendibile base di riferimento che ci convinceva di essere guidati e, nello stesso tempo, padroni della natura.
Ora questo tempo è passato.
Siamo circondati da mezzi tecnologici che ci permettono di sapere tutto in anticipo, con molta più precisione di Frate Indovino e con la presunzione di capirne di più della Luna che sta lì in cielo e ci guarda come se fosse sempre assente. Invece sono in aumento le persone che, tornando all’antico, hanno cambiato visuale rispetto all’approccio iper-tecnologico verso la realtà. Provano a rispettare i ritmi della natura.

Non è un mistero che la cultura del green e della sostenibilità stia prendendo il sopravvento. E un motivo ci sarà. Seguire i ritmi della luna significa ascoltare i tempi del nostro corpo, rispettandolo.
Aumentare la velocità spesso non serve a nulla,
se non a farci perdere ulteriore tempo per tornare indietro a recuperare ciò che abbiamo lasciato.
Non ce lo insegna solo Frate Indovino ma pure una delle band più famose al mondo. I Pink Floyd chiamavano in causa il sole e non la luna per spiegare in Time che «the sun is the same in a relative way but you’re older». In una frase ci davano la spiegazione della nostra nullità (l’invecchiamento) di fronte all’infinito. Il tutto in un album (uno tra i più venduti nella storia dei dischi) che ha un nome-simbolo:
The Dark Side of the Moon. Per uscire dalla trappola del tempo, insomma, dobbiamo conoscere il lato oscuro della luna (rieccola).

Ma questo potremo sperimentarlo si spera il più tardi possibile.