#Oltre n°6/2024 | «Sì, viaggiare» Impariamo a dar retta a Lucio Battisti

#Oltre n°6/2024 | «Sì, viaggiare» Impariamo a dar retta a Lucio Battisti

«Sì, viaggiare» Impariamo a dar retta a Lucio Battisti

Sì, viaggiare. Lo cantava Lucio Battisti quasi cinquant’anni fa e il desiderio di evasione non è venuto meno. Anzi, si è intensificato durante il boom e ha avuto un unico freno determinato dalla pandemia che ha costretto tutti a casa. Poi la voglia di fare la valigia è tornata ed eccoci qui a raccontare di un nuovo exploit delle prenotazioni.

C’è la crisi, è vero. Mancano i soldi per fare la spesa ma come si fa a rinunciare a un bel viaggio che ci permette di staccare dalla routine di tutti i giorni? Le abitudini, però, sono cambiate. È finito il periodo dell’esodo agostano, quando ci si metteva tutti in coda sull’autostrada per raggiungere le località di vacanza, oppure le famiglie del Sud che abitavano al Nord si ricongiungevano con amici e parenti in un periodo ben determinato che coincideva con la chiusura delle fabbriche nelle grandi città. Adesso è tutto cambiato. I periodi di pausa sono, per la maggior parte, più brevi. E, soprattutto, mirati. Ecco, allora, che prendono piede le vacanze in coincidenza con i grandi eventi sportivi o musicali, con le mostre d’arte o con le kermesse gastronomiche. Ci sono pacchetti su misura per tutti. Diluiti nell’anno. E questo conferma una voglia di evadere che non è più casuale. Guardandolo in positivo questo fenomeno dimostra che va per la maggiore il turismo intelligente, optando per la visione negativa significa che la nostra società si muove ormai solo per schemi.

Può sembrare un controsenso ma la nostra ineguagliabile libertà, per esprimersi ha bisogno di essere incanalata. Ci sentiamo quasi persi se non abbiamo qualcosa al quale appigliarsi. È una sensazione strana che coincide con l’ormai inevitabile necessità del cellulare. Se parlate con un nativo digitale vi dirà che lo smartphone non è uno strumento ma una parte del corpo. Ma pure noi che siamo boomer abbiamo creato questa dipendenza che non è altro che specchio della nostra insicurezza. E così, anche quando scegliamo le nostre vacanze, abbiamo bisogno di una meta precisa e di un programma sicuro con evento che ci attiri. E non ci sia qualcuno che inorridisca davanti alle nostre scelte. Le vacanze sono sacre e ognuno è libero di passarle come meglio crede.

Viaggiare è una delle attività più belle che l’uomo e la donna possono permettersi. Ce lo ricordava Battisti e noi non ce lo dimentichiamo. In un mondo che va a una velocità folle, la cosa migliore è scendere per ritagliarsi spazi e tempi preferiti. Se tutto ciò coincide con un programma mirato non si scandalizzerà nessuno. Ci emozioniamo per quello che è imprevisto ma anche per quello che conosciamo e che ci piace. Non resta che preparare la valigia.

#Oltre n°6/2024 | «Sì, viaggiare» Impariamo a dar retta a Lucio Battisti

#Oltre n°5/2024 | L’importanza di mantenerci sempre dei romantici

L’importanza di mantenerci sempre dei romantici

La religione ma soprattutto la sapienza degli antichi ci insegnano che il male esiste dentro la confusione dei linguaggi. Non bisogna essere degli esperti né di teologia, né di filosofia, per rendersi conto che questa considerazione vale al giorno d’oggi come oro colato di fronte all’intersecarsi e all’incartarsi delle nostre parole che si diffondono come «tromba di guerra e di rivolta» (così definiva Thomas Hobbes il modello di comunicazione umano) nel meccanismo amplificato del mondo digitale. Una sensazione di spaesamento prende chi non riesce a maneggiare il nuovo universo tecnologico e finisce per rimanere triturato dentro questa moderna Torre di Babele in cui la vanità prende il sopravvento rispetto alla conoscenza.

Cosa vogliamo salvare, allora? Beh, la risposta è sempre la stessa. Per mantenere vivo quel punto bianco che tutti abbiamo nel cuore, quell’inesauribile carburante che lo scrittore afgano Farhad Bitani ha conservato come un gioiello prezioso di fronte alle brutture del regime talebano, dobbiamo credere nell’amore, in quel sentimento che ci rende simili a Dio, quel moto dell’anima che Platone ha riassunto nell’unione dell’eterno diviso, nella capacità di sognare e di progettare qualcosa di infinito pur essendo noi costretti a vivere dentro una struttura finita, visto che il nostro corpo un bel giorno ci lascerà. Sarebbe bello che fosse così. Peccato che anche l’amore, di questi tempi, non vada di moda. Soffre la crisi del mondo moderno per un motivo evidente: l’amore è semplice (o si prova o non si prova) e fa fatica a convivere dentro una realtà complessa come la nostra.

Lo si diceva all’inizio, la confusione dei linguaggi ha creato l’incomunicabilità, l’incapacità di aprire gli occhi di fronte alle cose belle, l’impossibilità di lasciarsi contagiare da cuore e passione. Abbiamo sempre un retropensiero che ci frena e ci impedisce di gustare quello che la vita ci offre. Ma ora c’è una soluzione. Armiamoci di un po’ di ironia e, in questi giorni che ci avvicinano al santo degli innamorati (San Valentino), lasciamoci guidare dal Love Coach. Si chiama proprio così quel professionista in grado di guarire le ferite d’amore e di instradarci verso il soddisfacimento del nostro sentimento verso l’amato o verso l’amata. Ci penserà lui a spiegarci come raggiungere l’obiettivo. E qui, permettetecelo, ci viene da ridere, perché abbiamo detto all’inizio che l’origine della nostra rovina sta nel complicare le cose semplici. Ecco, rivolgersi a un esperto per realizzare i sogni d’amore ci pare come una contraddizione rispetto alla naturalezza di questo sentimento. Ma forse la pensiamo così solo perché abbiamo un difetto che questa società sta pian piano eliminando. Siamo romantici, e che ci possiamo fare?

 

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#Oltre n°4/2024 | Una tazza di tè per Putin e Netanyhau

Una tazza di tè per Putin e Netanyhau

La storia si scrive attorno a una tazza di tè, una bevanda che non è mai passata di moda e che trasmette calma, tradizione, voglia di parlarsi senza alzare la voce, rilassati, pronti ad ascoltare, non solo a spiegare le proprie ragioni. Prima e dopo si può anche fare la guerra ma in quella parentesi sospesa nel tempo in cui i grandi del mondo si sono fermati per bere un tè è sembrato che parlassero la stessa lingua, convinti di andare d’accordo, di vivere in pace e di trasformare il pianeta in un luogo dove regna la concordia assoluta.

Quante tazze di tè ci vorrebbero in quest’epoca di guerre disumane? Tante. E forse non basterebbero. Ma la speranza, come dice l’antico adagio, è l’ultima a morire quindi è giusto dare una chance a quella bevanda magica che, nel corso della storia, ha fatto miracoli. La tradizione britannica conferisce al tè questa capacità taumaturgica, quindi sarebbe bello mettere al tavolo, in questo momento, i capi di Hamas con Benjamin Netanyhau, oppure Vladimir Putin con Volodymyr Zelensky. Chissà cosa ne uscirebbe? Noi siamo sognatori e ci illudiamo che sia una cup of tea a risolvere i mali del mondo. Purtroppo non è così. Potremmo allora proporre le classiche ricette italiane dei tarallucci e vino o della pizza. Ma è difficile ottenere il risultato sperato perché ormai il livello dello scontro e dell’incomprensione è talmente alto che non bastano gli ingredienti del buonsenso per arrivare a una soluzione. Dobbiamo allora accontentarci di sorseggiare un tè guardando la televisione, mentre scorrono le immagini dei massacri, mentre vengono mostrati al mondo i gravi difetti del genere umano.

Passano gli anni, si succedono le epoche ma non c’è verso di comprendere che l’egoismo porta sempre e soltanto alla distruzione. Eppure lo sperimentiamo tutti i giorni. Vediamo i cadaveri del Medio Oriente o i morti sul fronte orientale e non ci domandiamo perché la spirale di violenza continui indisturbata a causare i suoi guasti. Basterebbe fermarsi un attimo. Scendere da quel Treno per il Darjielin che raccontava Wes Anderson nel famoso film che diversi anni fa presentò al festival di Venezia per capire che la vita non è una corsa all’impazzata verso il nulla ma un’avventura magnifica da vivere giorno per giorno. Con calma.
Il riferimento al Darjielin non è casuale. Richiama una delle terre indiane più famose per la produzione del tè nero. Sarà un caso (ma forse no). L’indicazione chiara di quel film è di fermarsi un attimo per riflettere. Sorseggiare quella magica bevanda ci aiuta a tornare in pace con noi stessi. E a capire gli altri. Per smettere – finalmente – di fare la guerra. E non sarà (si spera, un giorno) solo un momento passeggero.

 

#Oltre n°6/2024 | «Sì, viaggiare» Impariamo a dar retta a Lucio Battisti

#Oltre n°3/2024 | Taglio i baffi o li tengo? Attenzione a non sbagliare

Taglio i baffi o li tengo? Attenzione a non sbagliare

In un mondo che fa dell’immagine il proprio punto di riferimento, il look diventa importantissimo. Come ci si veste ma come ci si pettina o come ci si trucca sono parti indispensabili di un meccanismo di comunicazione in cui tutto conta.

In questo discorso entrano a pieno titolo barba e baffi per gli uomini. Sono sempre di più i giovani che scelgono di non radersi. O meglio di accompagnare la crescita di barba e baffi con sapienti tocchi di rasoio e forbici per renderli confacenti all’immagine che ognuno nutre di sé. È una sfida difficile ma divertente perché testimonia l’evoluzione nello stile degli uomini che non amano più essere degli sciattoni casual ma preferiscono mostrare nel look la loro personalità. Evoluzione positiva, dunque, ma anche impegnativa. Rende evidente una trasformazione di ruolo ma non è che parta dal nulla. Non è vero che l’uomo scopra solo adesso di essere attento al proprio bell’apparire, si accorga di diventare un po’ civettuolo. Lo è sempre stato. Con la brillantina Linetti sui capelli o con mustacci lunghi e curatissimi, ha provato a caratterizzarsi per piacere di più, prima di tutto a se stesso, poi agli altri. Ora siamo di fronte a nuovo cambio di paradigma perché, se i capelli curati e il viso sbarbato, sono andati per tanto tempo per la maggiore, adesso si preferisce mostrare i segni della propria virilità in modo più accentuato. È un modo per dire a tutti: «Ehi, guardate: sono un uomo!». La lettura potrebbe essere calzante in questo periodo di generazione fluida. Un modo per marcare il proprio sesso di fronte alla società, non per far spiccare i difetti dell’omofobia, ma per convincere gli altri (e forse anche se stessi) sulla propria chiara identità. Interpretazione psicologica e sociologica, dunque, rispetto a un look che può avere, però, solo radici estetiche.

Al bando, dunque le spiegazioni profonde, barba e baffi in questo periodo piacciono di più rispetto al viso lindo e pulito. Dunque si segue una moda che permette di accettare meglio il proprio aspetto fisico e di essere più accettati dagli altri.

Che piacciano o non piacciano, comunque, i baffi sono il motivo ispiratore di un libro di Emmanuel Carrère che forse non tutti conoscono (non è tra i più venduti) ma che inquieta alla lettura. Parla di un uomo che si taglia i baffi ma che tutti quelli che lo conoscono, a cominciare dalla moglie, gli fanno notare che mai li ha avuti prima. Risultato: il protagonista va fuori di testa perché, quello che all’inizio può sembrare solo uno scherzo, in un crescendo di nervosismo e tensione, finisce nel peggiore dei modi. Dimostra come il look possa segnare la nostra vita. Nel bene e nel male. Un paio di baffi e una barba da hipster possono fare la differenza. Pensiamoci un attimo, senza (per favore) cadere nella trappola di Carrère.

#Oltre n°6/2024 | «Sì, viaggiare» Impariamo a dar retta a Lucio Battisti

#Oltre n°2/2024 | Dalle bacche alla carne. L’importante che ci piaccia

Dalle bacche alla carne. L’importante che ci piaccia

Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei. Partendo da questo presupposto fa una certa specie pensare all’uomo delle caverne che aveva un’alimentazione del tutto differente dalla nostra. Bacche, tuberi e persino insetti erano i cibi preferiti da chi viveva nel paleolitico. Da allora ad oggi c’è stata una certa evoluzione. Ogni progresso ha portato a una dieta differente. Dalla condizione di nomadismo, quindi, si è passati alla fase stanziale in cui tutto è cambiato dal punto di vista del cibo. Alla caccia si sono affiancate le attività di coltivazione e di allevamento che hanno permesso ai cavernicoli di evolversi sia nei gusti sia nelle abitudini nutrizionali. Dalle radici e dai prelievi di elementi naturali dalle carcasse degli animali si è così passati a un’alimentazione, almeno alla lontana, più simile alla nostra. Mai, però, è venuto meno un principio che ci accompagna a distanza di migliaia di anni e da quanto facevano i nostri antenati: la ricerca di beni che ci nutrano e ci facciano provare piacere.

L’evoluzione delle diete è ora arrivata al punto che, talmente sono particolari ed elaborate, a volte si perdono di vista questi due elementi cardine. E non va bene. Proprio per questo hanno successo le scuole di pensiero che privilegiano il cibo per il ritorno alle origini e il recupero della natura. In questo contesto va interpretata la sempre più frequente scelta di passare ad abitudini alimentari vegetariane. Lo erano i nostri avi, perché non lo possiamo essere noi? Come si diceva il regime nutrizionale è figlio dei tempi. Stringendo la lente d’ingrandimento su un periodo meno vasto di quello primitivo e arrivando fino ai giorni nostri si comprende, allora, molto bene che scegliere la carne è un retaggio figlio del boom economico, emblema piuttosto scontato del consumismo imperante. Lettura ideologica della realtà o spiegazione vera di ciò che è avvenuto dal dopoguerra ad oggi? Come sempre accade, la verità sta nel mezzo. Da una parte c’è il condizionamento sociale, dall’altro si pone un dato oggettivo che tutti noi sperimentiamo quando andiamo a tavola: la carne è buona, perché dobbiamo privarcene? Si torna, dunque, da dove si è partiti: l’alimentazione serve per il sostentamento ma pure perché ci dà piacere. Se la carne risponde a questo nostro desiderio possiamo continuare a mangiarla. Con misura, ma senza auto-imporci diete che non fanno per noi. Se invece abbiamo deciso di essere come Socrate o come Plutarco, come Leonardo o come (in tempi vicini ai nostri) Albert Einstein, allora, dedichiamoci a ciò che già i cavernicoli avevano sperimentato. Ovvero: vegetali di tutti i tipi. E (forse) anche gli insetti. Dicono che siano di moda (e ne abbiamo già parlato in qualche numero fa di Oltre) perché, come ci ricordano sempre gli antichi: de gustibus non disputandum est. Ecco.

#Oltre n°6/2024 | «Sì, viaggiare» Impariamo a dar retta a Lucio Battisti

#Oltre n°1/2024 | Quando i social diventano un’occasione di conoscenza

Quando i social diventano un’occasione di conoscenza

I social fanno parte della nostra vita. Inutile negarlo. Inutile e controproducente scatenare delle battaglie contro. Inevitabile sarebbe la disfatta.

Di questi concetti sono convinti un po’ tutti, anche le schiere di boomer che si adattano alla bisogna e spesso fanno dei gran disastri. Ma va bene così. Non si può imparare a nuotare senza buttarsi in acqua, come non è giusto e non è corretto sentenziare su un mondo che non si conosce. Quello che fa la differenza, come per tutti gli strumenti creati dall’uomo, è l’uso. Anche l’automobile è un pericolo se si va a 200 all’ora in una strada a curve (ammesso che si riesca). Così i social diventano rischiosi – anzi dannosi – se l’uso viene trasformato in abuso, se non si comprende il confine che esiste tra mondo reale e virtuale, mischiando tutto quanto.

Il gallaratese Marco Pangallo – alle pagine 8 e 9 di quest’edizione di Oltre – dimostra come si possano utilizzare i social per portare un mondo considerato per gente di una certa età ai più giovani. Operazione che dimostra come, nella nostra società, spesso il medium (come lo chiamava il semiologo Marshall McLuhan) è il messaggio. Ovvero, il contenuto (in questo caso l’opera lirica) assume rilievo nel momento in cui viene veicolato con il mezzo giusto (in tal caso su Instagram). In apparenza, tutto questo meccanismo – al giorno d’oggi – sembra scontato, quasi ovvio. Ma non è così. Tanto è vero che, quando l’influencer gallaratese ci ha pensato e lo ha messo in atto, subito ha attirato schiere di followers. Che, volentieri, si avvicinano a una realtà abituata ad altri metodi di comunicazione. Avviene per la lirica, ma può essere valido anche per altri campi.

Ritorna, dunque, la domanda sull’uso dei social e qui si entra nel vivo della questione perché non è che tutti quelli che frequentano Instagram lo fanno per conoscere e per capire, perché amano la lirica o perché vogliono entrare in questo magico mondo grazie ai consigli di Pangallo. Spesso ha la meglio la sola componente di leggerezza, Ovvero, si frequentano i social per passare il tempo. Ci sta, a patto che non diventi un’abitudine. Essere rimbalzati da un contenuto all’altro rischia, infatti, di fare male ai meccanismi recettivi del nostro cervello (che disimparano l’attenzione) e di creare dipendenza. Dunque, cari boomer, non resta che affidarsi a Instagram a piccole dosi e su contenuti che non inquinino la nostra sfera cognitiva. Consiglio che vale per chi ha una certa età ma pure (soprattutto) per i giovanissimi che sono convinti di sapere tutto ma, magari, non si rendono conto del rischio di guidare l’auto a 200 all’ora. Basta spiegarlo loro. E farli innamorare più che dei prodotti che pubblicizza Chiara Ferragni dell’opera lirica presentata da Marco Pangallo.