IL PENSIERO DEL DIRETTORE
Il napoletano sta in spiaggia il milanese corre sempre
C’è una barzelletta che fa più o meno così: un napoletano e un milanese sono in spiaggia; il primo ascolta e fa domande, l’altro risponde e racconta. Che lavoro fai? L’imprenditore. E quanti soldi hai? Ne ho tanti. E cosa te ne fai? Ho cominciato con una piccola ditta, poi l’ho ingrandita, dopo ne ho comprata un’altra, poi non bastava più, ho aumentato ancora di più il mio mercato e adesso vendo anche all’estero e guadagno sempre di più. E cosa farai ancora? Continuerò così finché avrò un po’ più di tempo libero e verrò da te in spiaggia. Bravo e io già sono qua tutto l’anno. Fine della storia.
Quando siamo distesi al sole, cullati dal rumore delle onde, a volte pensiamo che stiamo sbagliando tutto. Che corriamo per tutta la vita ma basterebbe fermarsi e mettersi in riva al mare ad ascoltare la sua voce e a scrutare l’orizzonte per sentirsi appagati. In fondo, non avremmo bisogno d’altro. E ce ne accorgiamo quando riusciamo a entrare in simbiosi con la natura. Ma non è così facile. La vita da spiaggia riserva anche altre incognite che non sono esattamente romantiche come le abbiamo raccontate poco sopra. Esistono una miriade di variabili che vanno dalla partita con i racchettoni del vicino d’ombrellone con annessa pallina che ti colpisce in volto, all’invasione dei sup (stand up paddle), la moda del momento, che occupano tutti gli spazi in spiaggia e diventano pericolosi in mare, oppure i discorsi fiume, la crema mista a sabbia, i giochi di società e tanto altro ancora. Potrebbe essere lungo l’elenco degli elementi di disturbo in spiaggia, a meno che non si decida di trascorrere la propria vacanza in una di quelle località dove si fa fatica ad arrivare o è da super vip con tutti comfort.
Resta comunque la contraddizione tra la bellezza degli elementi naturali e l’opera circostante. Così come spiega all’inizio il napoletano, la bellezza sta nella semplicità. Appena vuoi mettere becco nella natura, credendo di dominarla, costruendo di tutto e di più, finisce che fai peggio di prima.
In verità non è proprio così, la barzelletta non restituisce l’esatta dimensione della vita ma ne dà una descrizione parodistica che porta a interrogarci. Lo potremo fare, tanto più, in queste giornate di sole e, se possibile, di mare. Pur con i mille difetti che può avere la vita da spiaggia è pur sempre sinonimo di vacanza. E la vacanza, per definizione, è la capacità di uscire dalle consuetudini, la libertà finalmente di essere se stessi tra un maxi stecco e un tuffo, un sorriso e una corsa in pineta. Ben vengano, dunque, le ferie perché ti permettono di ricaricare le pile e di riprendere presto a correre. Appunto. Come ci insegna il milanese.
IL PENSIERO DEL DIRETTORE
La migliore lettura estiva si trova da Ubik (non uno spot)
Parlando di letture estive non si può non citare Ubik. Il nome, oggi, evoca quello di una catena di librerie che, richiamando il termine latino Ubique, sta a significare “ovunque”: un buon libro – insomma – si trova dappertutto. Andate in una Ubik, allora, e troverete quello che cercate. Soprattutto in estate. Ma non è uno spot. E ora capirete perché.
Per chi è appassionato di letteratura del Novecento, e soprattutto di fantascienza, Ubik ricorda il titolo di un romanzo che io ho letto durante una vacanza al mare. Mi avevano parlato molto bene di Philip Dick come genio visionario, come autore un po’ ostico ma di straordinarie capacità metafisiche, abilissimo a manovrare le invenzioni della sua mente pazzoide. Mi sono accostato con tanta diffidenza, non essendo appassionato né della fantascienza, né tanto meno del genere distopico che ti porta in un futuro spesso costellato di lutti e di tragedie. Ma quel testo dell’autore americano ti prende e fai fatica, anche a distanza di tempo, a non pensarci. Voi direte, cosa ci sarà di così bello nella farneticazione di un appassionato di sostanze stupefacenti? Se lo scrittore è diventato un personaggio di culto un motivo ci sarà e lo ritroverete in Ubik, così come in altri suoi libri, uno dei quali venne preso dal regista Ridley Scott a soggetto di Blade Runner, capolavoro del cinema e pietra miliare di quel genere in cui si fa fatica a distinguere tra la finzione iperrealista su un futuro che deve ancora arrivare e il reale di un presente che sfugge.
Ubik è poco lettura estiva ma io ve lo consiglio lo stesso perché si articola su due piani e non è semplice distinguerli, si va avanti e indietro nel tempo, toccando con mano un universo in cui la vita convive con la non vita. Basta uno spray per esserci o non esserci, un soffio flebile che può cambiare tutto in un istante. Cosa dire di più di Ubik? Niente, bisogna leggerlo per capire che la prosa a volte non scorrevolissima di Philip Dick svela segreti che ai più paiono insondabili. Il tutto, poi, si aggancia a una storia ambientata tra terra e luna, tra missione spaziale e sabotaggio con i rapporti tra le persone che diventano lo specchio di una condizione umana – quella attuale – in bilico tra sentimenti e tecnologia. Per trovare il bandolo della matassa, allora, basta affidarsi a Ubik.
Per altre letture estive, invece, non saprei cosa consigliarvi. Sara Magnoli, molto più esperta di me, ne indica alcune e sono senz’altro più centrate rispetto a un romanzo uscito nel 1969. L’importante, insomma, è che leggiate. Ce lo dicevano già a scuola ma non sempre abbiamo ascoltato i nostri prof. Leggere, soprattutto adesso che siamo tutti schiavi del dio telefonino, è uno dei modi più efficaci per tornare a essere se stessi. Ripartendo da Ubik..
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Quei segni impressi sulla superficie del Pongo
Cosa è un’emozione? Difficile da capire. Ancor più da spiegare. Si prova e basta. e qui potrebbe già essere finito l’articolo di Oltre di questa settimana. Ma il mestiere di giornalista impone di andare oltre – appunto – per raccontare, per descrivere, per provare a scandagliare quel velo sottile che separa la realtà quotidiana da ciò che c’è sotto, come quando si scava per provare a individuare l’assassino dopo un fatto di sangue, non accontentandosi di quella che appare come la spiegazione più plausibile. E allora ci accorgiamo che si può trovare una definizione più concreta al termine emozione che non sia semplicemente il già detto e il già sentito.
Emozione, dunque, è qualcosa che ci rimane impresso dentro. Provate a pensarci e lo capirete molto bene. Vi ricorderete con precisione quel momento, quel gesto, quel moto emotivo che vi è rimasto scolpito per sempre nella vostra coscienza ed è conservato dentro un cassetto che non sapete come definire se non ripescando nomi ormai passati di moda come anima o spirito. Sfido chiunque a non aver provato delle emozioni. Possono essere brutte o belle ma sono come un solco nella nostra individualità, di persone che vivono nella quotidianità ma non si fermano alla quotidianità. Proviamo a fare degli esempi, senza sembrare troppo romantici, ma pensate a quando quella ragazza o quel ragazzo vi hanno detto sì dopo che ci avevate sperato per tanto tempo. Cosa avete sentito? Beh, quella è un’emozione bella e buona. Passano gli anni ma ve la ricordate come fosse adesso. E il successo sportivo? Il traguardo scolastico o lavorativo? Fin qui siamo sulle indicazioni classiche, quasi scontate. Ma le emozioni ci possono cogliere anche di sorpresa perché rimaniamo colpiti da qualcosa di piccolo ma di grandissimo ai nostri occhi: un gesto, una parola, un’immagine inaspettata. Si scatena qualcosa che ci apre un mondo e ci fa ricordare quel momento come unico e irripetibile.
Non abbiamo parlato delle emozioni negative perché tendiamo a rimuoverle. I nostri meccanismi di autoconservazione cercano di allontanare ciò che ci ha fatto male, ma la memoria non può essere ingannata quando è stata impressa da un brutto momento. E, se ci facciamo caso, torna a galla quel sentimento amaro ma vivo. Che ci fa stare male ancora oggi e che ci testimonia quanto noi siamo simili a dei pezzi di Pongo, destinati a riportare dentro un segreto scrigno del nostro essere tutto ciò che ci ha emozionato, nel bene e nel male. Con questa convinzione guardiamo, comunque, avanti. Cerchiamo quello che ci fa stare meglio e rifuggiamo ciò che ci conduce verso la sofferenza. Ma non sempre ci riusciamo. È il nostro destino, non possiamo cambiarlo per dare una speranza a chi legge questo articolo su Oltre.
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Lunga vita al bikini. E a chi lo indossa
Lo so che diventate pazzi al mare quando vedete qualche bella ragazza con bikini minimo e fisico da urlo. Fate finta di niente per non passare per i guardoni di turno ma, appena potete, voltate lo sguardo come fa l’orso quando sente il profumo del miele, salvo prendere il classico sberlone dalla moglie. Non è il fermo immagine di una classica commedia all’italiana degli anni Settanta ma una scena probabile sull’arenile italiano, in questi tempi un po’ deserto per via delle perturbazioni. Non vi voglio però accompagnare, almeno con l’immaginazione, su una spiaggia di Rimini o di Riccione. Desidero, invece, condurvi in un viaggio nel tempo che non deve apparire come un noioso esercizio di stile intellettuale ma come una semplice riscoperta della nostra essenza, partendo proprio da ciò ci cui dicevamo sopra: il bikini. Seguitemi, allora, dentro la Villa del Casale a Piazza Armerina. Siamo nel cuore della Sicilia, in provincia di Enna. Fa un caldo, d’estate, che non t’immagini neanche perché il mare non è vicinissimo e l’aria si ferma, ti manca il respiro. Lo sforzo fisico di resistere all’afa ha, però, la sua ricompensa. Qui si trova qualcosa di eccezionale. Nell’edificio scoperto una settantina di anni fa (ma gli abitanti del luogo assicurano che da tempo si portavano via di tutto da quel patrimonio dell’umanità) ci sono mosaici che lasciano con la bocca aperta.
Il colore è ancora vivo, il disegno perfetto, l’espressività unica. Sono stati realizzati nel IV secolo, quindi hanno più o meno 1.700 anni. Eppure trasudano freschezza e modernità. La manifestano soprattutto quelle figure di donne che fanno sport e che sono vestite solo del bikini. Che spettacolo vedere le atlete che giocano a palla o che si impegnano in altre attività indossando solo un due pezzi. Che, già all’epoca, evidentemente, andava di moda. Scoprirlo dà una certa emozione, rimanda a quei canoni di bellezza che non sono cambiati in questi anni e sono giunti inalterati fino a noi, restituendoci un’idea di armonia, di equilibrio, di grazie e di splendore che non deve perdersi mai. Attraverso quel bikini noi ripercorriamo la storia degli uomini e delle donne nei secoli. Grazie a quel mosaico di epoca romana riprendiamo in mano il bandolo della matassa e siamo lì a gioire perché la strada del bello è la più semplice per arrivare a Dio.
Così anche adesso, non disperiamo se siamo al mare e qualche moglie rimprovera il marito che guarda troppo la vicina d’ombrellone in bikini. Il marito sta semplicemente provando a connettersi con qualcosa di superiore, passando da qualcos’altro di un po’ più terreno. Lo facevano già i romani, inutile biasimarlo. Lunga vita, allora, al bikini. E, soprattutto, a chi lo indossa.
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Ecco un modo per non farci bruciare le ali come Icaro
L’universo ci attrae ma, nello stesso tempo, ci fa molta paura. L’idea che un asteroide sia in arrivo proprio in queste ore, aumenta il nostro stato di tensione che trae origine da una semplice considerazione: ci sentiamo piccoli piccoli dentro uno sterminato mondo, del quale non percepiamo che segnali inquietanti. Abbiamo una sola via d’uscita per rimetterci calmi: non ci pensiamo, continuiamo nella nostra vita di esseri terrestri e ci accontentiamo così. Inutile perderci in voli pindarici. Non abbiamo nessuna voglia di farci bruciare le ali dal sole come Icaro e così mettiamo da parte le nostre divagazioni sull’universo.
Eppure è proprio quella la nostra casa. Ci sentiamo attratti dall’incommensurabile spazio che si apre sopra le nostre teste. Rintanati nelle nostre casucce, racchiudiamo le nostre insicurezze su confortevoli divani e in accoglienti cucine dove invitiamo gli amici affinché, con i loro discorsi sulle cose di tutti i giorni, ci tengano lontani dai pensieri sul chi siamo e sul dove andremo a finire. Concetti troppo filosofici? Forse. Ragionamenti destinati a non arrivare a nulla? Può essere. Intanto però l’universo ci richiama come una calamita e ci sovviene la famosa frase dell’epitaffio sulla tomba di Immanuel Kant, colui che uccise la metafisica (in teoria) ma, negandola, le diede rinnovato vigore.
C’è scritto sul suo sepolcro a Konisberg (oggi Kaliningrad, una delle poche porte che dall’Occidente conducono nella grande madre Russia): «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me». Quante volte abbiamo sentito questa frase? Tante, troppe. I prof ce la ripetono dai tempi del liceo. Ci ha un po’ stancato ma è emblema del nostro posto nell’universo che è piccolo rispetto all’infinita immensità di ciò che ci sta intorno però è grande se raffrontato al nostro desiderio di sentirci parte di un’umanità che non può essere circoscritta al singolo individuo ma si esprime in modo esaustivo nel suo essere rispettosa di regole sociali di progresso e di civile convivenza. Che ne dimostrano, così, la sua forza e la sua sovrumana bellezza.
Siamo partiti dall’asteroide per arrivare a Immanuel Kant e l’operazione non sarà piaciuta a tutti, in particolari a quelli che speravano di aver archiviato il filosofo tedesco dopo l’esame di maturità, ritenendolo noioso e pesante. Ma lui ritorna e ci apre gli occhi – a volerlo ascoltare – sulla grandezza dell’uomo – lo ripetiamo – che è piccolo se vuole rimanere nel suo stretto guscio materiale ma si eleva alle alte vette se sceglie – e qui diventa inevitabile la citazione di Platone – di uscire dalla caverna e di andare alla conquista dell’iperuranio, di quel mondo che ci sfugge ma che ci attrae. Che non percepiamo con i nostri sensi ma che vediamo con gli occhi dell’anima. Ammesso che esista.
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Quel faro ci insegna la forza dell’amore
Chi crede (ancora) all’amore non ha che da leggere questo numero di Oltre per rimanere incantato da un simbolo che forse non tutti riconducono al sentimento (divino) che «tutto move e tutto puote». Eppure è lì, sul mare, a scatenare quello struggimento tipico di chi soffre le pene del cuore. Il simbolo è il faro perché rimanda alla distanza, alla mancanza, alla nostalgia, alla lontananza, al vorrei qualcosa di così eterno che mi sfugge.
Verrebbe da dire che l’amore è bello quando l’oggetto delle proprie attenzioni non c’è. Quando si materializza diventa tutto banale, finisce il sogno e la realtà è (sempre) più dura di quello che avevamo pensato.
Lasciamoci guidare dal faro, però, perché stavolta vogliamo farci prendere la mano dalle nostre flebili passioni. Ed è proprio il faro che il regista americano Wes Anderson ha messo nel suo film Moonrise Kingdom per evocare le atmosfere tipiche dell’amore. Ha fatto di più, ha scelto come protagonisti della storia due adolescenti proprio perché sono loro che, più di altri, riescono a stabilire il contatto con quel qualcosa che sfugge e che indicavamo all’inizio.
Suzy s’innamora di un giovane scout e insieme progettano di fuggire. L’unione dei loro cuori viene suggellata sulla spiaggia dell’isola di New Penzance, seguendo le note di Françoise Hardy (cantante, cantautrice e scrittrice francese bellissima, scomparsa pochi giorni fa: l’11 giugno) che intona, non a caso, “Le temps de l’amour”. Che c’entra il faro? Beh, è il punto di osservazione sull’isola dal quale Suzy scruta l’orizzonte sperando di vedere il suo amato perché la storia non è così semplice come potrebbe sembrare. Il rapporto tra i due ragazzi, infatti, è contrastato dai cattivi perché l’amore, si sa, prima di affermarsi, ha bisogno di combattere e di dimostrare a se stesso e agli altri che esiste davvero. Ed è negli adolescenti che trova la sua massima espressione proprio perché, come in un faro, la luce è forte, guida il tuo cammino, ma è intermittente, quindi può sparire di colpo o tornare senza nemmeno che te ne accorga.
A Wes Anderson il merito, in questo come nella maggior parte dei suoi film, di raccontare le passioni in modo molto particolare, mettendo insieme parole, musica e ambientazioni a forti tinte oniriche. In Moonrise Kingdom l’esperimento funziona e, se ancora c’è qualcuno che non ha visto questo film, farebbe bene a lasciarsi cullare da quell’ora e mezzo di raffinatezze. Tutto nasce da un faro ma attenzione: bisogna mettersi al riparo perché, alla fine del film, arriva anche un ciclone e a salvarsi è chi ci crede davvero. Così nel film di Wes Anderson, come nella nostra vita. A patto che le scelte siano sempre e solo d’amore.