#Oltre n°37/2021 | Alla ricerca dell’audience che è in noi e non dei like

#Oltre n°37/2021 | Alla ricerca dell’audience che è in noi e non dei like

L’idea che Mark Zuckerberg possa addirittura dimettersi pur di “salvare” la sua azienda, Facebook, dal punto di vista dell’immagine è davvero forte e dà il segno della gravità della situazione. Perché è certo che il suo media in particolare non se la passa bene, dopo i vari scandali legati a dati diffusi, venduti, raccolti e distribuiti secondo criteri opachi, dopo le accuse di influenze elettorali, anche estere, via social,  dopo il dibattito acceso sulla diffusione delle fake news, delle notizie false, artefatte da siti vari allo scopo di creare onde di approvazione o disapprovazione sulla base di non verità, di paure od opinioni estreme, dopo le rivelazioni su trucchi algoritmici di gole profonde ed ex dirigenti più o meno pentiti. Fuori dal clamore e dalle breaking news, forse si può riflettere sulla natura in generale dei social media per capire che cosa sta provocando qualche cortocircuito, a prescindere dalle responsabilità personali e sociali che emergeranno altrove. I social network nascono e si diffondono rapidamente grazie a tre ingredienti fondamentali. Il primo è la condivisione di cose, essenzialmente di dati. Il secondo è appunto il dato: io uso gratis un social network per condividere dati e dunque il prezzo che pago per l’utilizzo gratuito del mezzo è il conferimento dei miei dati e dei dati da me condivisi. Il terzo e fondamentale ingrediente, quello che probabilmente contribuisce più di altri all’impazzimento della maionese è la ricerca del consenso, dell’approvazione, del like, o la creazione di onde di odio, di disapprovazione, di dislike, in una parola dell’audience. In una splendida intervista a 7 del Corriere della Sera, Enza Sampò ha
spiegato che uno dei problemi, per la televisione, è nato quando la qualità di una trasmissione e la sua audience rilevata dall’Auditel sono diventate la stessa cosa, sinonimi. Ecco, ai social network sta succedendo la stessa cosa, l’audience, cioè il numero di like o di follower, e la condivisione stanno diventando la stessa cosa e questo apre la via a trucchi, opacità, eccesso di commercializzazione delle identità personali e sociali. Ricordate quando da piccoli ci dicevano che una buona azione va fatta a prescindere dalla sua ostentazione e dalla sua approvazione generale? Ecco, i social media, per salvarsi l’anima, dovrebbero in parte riscoprire, e noi con e dentro di loro, la distinzione tra condivisione e audience. In parte Istagram lo ha capito, togliendo la possibilità a tutti di vedere i miei “mi piace”, però il problema non è la ricerca dell’audience che è negli altri, il problema è la ricerca dell’audience che in me. Ma condividere è meglio che piacere.

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#Oltre n°36/2021 | La noiosa realtà dei talk show politici

L’idea che ci sia una distanza quasi incolmabile tra la realtà quotidiana e quella televisiva raccontata dai talk show s’avanza sempre più e si rafforza soprattutto quando il clima è elettorale, dunque quasi sempre in Italia. Lo schema della maggioranza dei talk show – perché non è nemmeno giusto fare di tutt’erba una fascia televisiva – è il seguente ed è semplice: prendiamo i più estremisti delle due ali estreme di un tema e li facciamo discutere dell’argomento scelto dalla politica come tema di scontro quotidiano e/o settimanale, a seconda della frequenza di messa in onda del programma; esasperiamo sempre più i toni sperando che ci si interrompa a vicenda e che si litighi di brutto, che magari qualcuno si alzi e se ne vada, per dire però che è bene non interrompersi e non è bene parlarsi sopra perché se no nessuno capisce nulla, e se qualcuno si alza e se ne va cerchiamo di convincerlo a restare. Poi ci facciamo suggerire qualche ospite sparso o dai partiti o da alcune agenzie di comunicazione di fiducia, magari qualcuno che ha anche un libro in libreria o in uscita, meglio perché così è più disponibile e a qualunque ora del giorno e della notte. E a lui o a lei facciamo fare il o la saggia che dà autorevolezza al programma. E così il racconto televisivo sembra una sorta di Beautiful della politica, senza baci e amori, ma con tante liti e qualche tradimento. Però sempre con la stessa compagnia di giro di protagonisti e soggetti, al punto che è quasi impossibile capire dove inizia un talk, una trasmissione e quando inizia un altro talk e un’altra trasmissione. Così il racconto che ne esce è quello di un paese sempre spaccato in due, sempre in preda agli estremismi, sempre appassionato e infuocato dalla politica e dai temi scelti dalla politica per il suo gioco quotidiano. Poi magari alle elezioni vincono i candidati non estremi. Poi magari alle elezioni va a votare soltanto un italiano su due. E i talk show per cinque minuti si interrogano sulla sorpresa o sul pericolo di due cose poco o punto previste, poco o punto raccontate, per poi naturalmente ricominciare con la trama quotidiana degli opposti estremismi. Come se gli italiani andassero in giro per strada per squadre contrapposte di battaglieri pasdaran di opposte fazioni, pronti a litigare a ogni pie’ sospinto, anzi, dividendo sempre il mondo in bianco o nero, senza sfumature di grigio, figurati 50. Le ragioni dell’audience? Ok. I talk show fatti così costano poco e rendono, anche senza grandi investimenti di idee e di risorse? Vabbeh. Però poi non lamentatevi se finiamo in tanti a guardare su piattaforme in streaming serie tv islandesi sottotitolate.

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#Oltre n°35/2021 | Il mondo della tv comincia sempre con una riunione

 

L’idea al centro del libro di Pietro Galeotti, La Riunione (Feltrinelli) sono due, anzi tre. La prima gli viene, manco a dirlo, durante una riunione ed è una domanda: chi verrà al mio funerale, ponendo che sia, chessò, domani? E da lì inizia un placido e sagace racconto di soggetti identificati con una sola lettera – s’immagina l’iniziale del nome -, noti, meno noti, magari famosissimi come super anchorman e super star della musica, che sono protagonisti di aneddoti, battute fulminanti e intrecci d’amorosi e odiosi sensi dietro le quinte di una qualche trasmissione tv di successo o di clamoroso insuccesso, e soprattutto a pranzo o a cena, perché “La Prima Legge Fondamentale della Riunione (detta Lodo Galeotti-Piccolo)” proclama così: “Rinunciare volontariamente alla pausa pranzo non servirà in alcun modo a evitare neppure una delle numerose seccature della giornata. Non fatelo mai”. Eccolo, il libro, come un Boris più dolce, acuto e un po’ malinconico, come sono tutti i racconti da leggere. La seconda idea è appunto descrivere per immagini rapide e in serie, come scene di un monologo da cabaret, ma americano – avete presente La fantastica signora Maisel? -, il mondo di chi scrive per la tv. Ecco, ma chi scrive per la tv? Che cosa significa fare l’autore televisivo? Che differenza c’è tra un regista, un coreografo, un produttore, un conduttore eccetera? Non aspettatevi risposte apodittiche, brevi cenni o saggi sullo specifico filmico-televisivo, attendetevi piuttosto bozzetti smagati e sempre complici, dunque del tutto privi di ogni forma di ipocrita moralismo o di nostalgia. Ecco, però sulla nostalgia vale la pena soffermarsi un attimo perché prima abbiamo usato l’aggettivo “malinconico”. E qui viene la terza idea che forse non c’entra nulla con le intenzioni dell’autore, ma per fortuna i libri belli, appena scritti, smettono di essere degli autori e diventano dei lettori (diritti d’autore esclusi, ovviamente). La terza idea assomiglia a quella di Jerry Maguire, ricordate il film? Lui, Tom Cruise, sosia peraltro di Galeotti, è un procuratore sportivo che a un certo punto sbotta dentro e fuori, scrive una lunga relazione dove mette nero su bianco tutto quello che quasi tutti i procuratori sportivi perbene pensano, ma non dicono a proposito dei difetti della loro professione tutta votata al profitto. E poi deposita la relazione nella casella della posta di tutti i suoi colleghi a un convegno dei soliti sulle solite prospettive della solita professione. Però Maguire era triste, un po’ moralista e tutto proteso ad altro: «Mi avevi già convinta al “ciao”», gli dice Renée Zellweger. Qui c’è un ritratto sorridente e immoralista, dunque più utile, per capire la tv e non solo. Ci devo assolutamente tornare, ma adesso scusatemi: c’è la riunione. Continua.

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#Oltre n°34/2021 | Nell’era phygitalci sono i social, bellezza!

L’idea che l’informazione non sia più tanto un oggetto, ma sia un servizio, un flusso, non è nuovissima, ma induce sempre nuove riflessioni, scoperte. Un tempo, infatti, l’informazione si sostanziava in una cosa, in un prodotto fisico: il giornale, la radio, la televisione, il libro. Ricordate la scena finale del film L’ultima minaccia? Ecco, c’è il direttore del giornale, peraltro Humphrey Bogart, che dice al cattivone, nuovo padrone: «È la stampa bellezza, la stampa, e tu non ci puoi fare niente…», mentre porge la cornetta verso la tipografia per far sentire al minaccioso interlocutore il rumore della rotativa che, producendo l’oggetto giornale, non può più essere fermata e così la notizia che riguarda il cattivone, nuovo padrone comunque arriverà ai lettori. Oggi basta un clic su un social media per dare una notizia, vera o falsa, questo poi è un altro problema. Siamo nell’era phygital, cioè né del tutto fisica né del tutto digitale. Oggi l’informazione non è da noi percepita come un oggetto tangibile ma ci piove addosso da ogni parte, tanto che spesso non siamo nemmeno in grado di dire dove abbiamo appreso la tal notizia: «Devo averla letta su internet o sui social…». E ormai – lo dice il fresco 17° Rapporto Censis sulla Comunicazione – sul web ci siamo più o meno tutti, l’83,5 per cento degli italiani, più 4,2 punti percentuali rispetto al 2019. E più o meno tutti usiamo uno smartphone, l’83,3% (+7,6%), anche per andare sui social, il 76,6% (+6,7%): «Nel 2021 si accorciano le distanze tra le generazioni, con la percentuale di over 65 che utilizza internet in aumento dal 42% al 51,4%. Tra gli anziani inoltre crescono anche gli utenti dei social media che passano dal 36,5% al 47,7%». Il Covid e i mesi di lockdown sono stati due potenti acceleratori della digitalizzazione di massa a tutte le età, quindi sempre più persone vivono e si informano con i tempi, i modi e le regole dell’era phygital. E con i problemi dell’era phygital: lunedì, infatti, abbiamo assistito a un blackout su scala globale di Facebook, Whatsapp e Instagram. E ci siamo sentiti persi, a riscoprire gli sms, magari perfino le telefonate, con complicazioni nella diretta elettorale e perfino nello spoglio. Quella pioggia di informazioni che ci cade addosso ogni giorno si è interrotta perché – così pare – un errore umano o qualcosa di simile ha inceppato l’enorme database di Mark Zuckerberg. E noi che pensavamo che non avremmo più corso il rischio che per il bloccarsi di una rotativa non saremmo riusciti a dare quell’informazione. Sono i social media, bellezza, i social media, e noi non ci possiamo fare niente.

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#Oltre n°33/2021 | 449 punti, dire la verità e tirare con l’arco

L’idea di trovare uno sport in età adulta, molto adulta, non mi aveva mai toccato finché un giorno è successo. Ovviamente per caso e altrettanto ovviamente per una pratica molto particolare, che sfiora l’arte marziale, le arti della meditazione, perfino lo yoga.

Pioveva, in montagna, d’estate; che cosa fare con il dodicenne super sportivo e super attivo? Un cartello a bordo strada diceva: scuola di tiro con l’arco. «Andiamo». Lui prova, io no. Il giorno successivo pioveva, ancora, in quella montagna, d’estate. «Riproviamo, ma stavolta anche tu papà, anche tu Fra!». Non è stato proprio amore a prima vista, è stato un lento crescere di curiosità, poi di seduzione e infine di convinzione, perfino di impegno. Ricordo, per esempio, di aver letto una splendida biografia di un personaggio noto che raccontava come un po’ di guarigione dai suoi mali oscuri era scoccata da un arco istintivo: una coincidenza è bella, ma due sono un segno. La ricerca della compagnia arcieri più vicina è nata in mezzo ai soliti buoni propositi di novità che caratterizzano ogni settembre. E il settembre dopo, che poi è questo, eccoci a fare la prima gara esordienti di tiro con l’arco e per di più nudo, senza mirino, un po’ meno difficile dell’istintivo ma insomma.

Il dodicenne ora tredicenne ha riposto l’arco al muro perché il fascino del calcio per lui è imparabile, meglio i tacchetti non sul muro, ma gli adulti sono tornati un po’ bambini, con quell’emozione che deriva dal senso competitivo, soprattutto nei confronti di se stessi. Ho fatto 449 punti, non importa come mi sono classificato, è importante che la prossima volta mi migliori. E nel frattempo? Libri letti, frecce perse, padiglioni spostati, un coach sempre sorridente che si divide tra il tiro e l’amore per una figlia particolare. Affetti. Il movimento è tutto, quando sento la corda sul viso in quell’esatto punto lì, anche se non miro, vado almeno nel rosso, se tutto il resto del corpo ha agito rilassandosi con determinazione ed eleganza, addirittura nel giallo, al centro. Il respiro segue il tutto e precede il tutto, gli occhi entrambi ben aperti, il suono perfetto della freccia che parte è l’incipit di una sospensione temporale così rilassante da sembrare un buon sonno dai problemi, un suono secco è invece la chiusa finale di uno sforzo minimo, ma pesante. Certo, che bello, uno sforzo che si può fare anche quando si è ben più in là negli anni della maturità adulta. Uno sforzo, che bello, che possono fare praticamente tutti. Qui però invece la chiusa è quella che sta anche nel titolo di questa confessione: dire la verità e tirare con l’arco. È un antico e attualissimo detto persiano. Ben detto.

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#Oltre n°32/2021 | Il podcast unisce una comunità di appassionati

L’idea di chiedere a Eleonora Sacco, viaggiatrice selvatica e scrittrice (secchiona) a proposito di viaggi, di lingue e di culture, di tenere su Oltre una rubrica dal titolo “Viaggi selvatici”, appunto (vedi pagina 31), mi è venuta ascoltando un podcast, Cemento, da lei prodotto assieme ad Angelo Zinna, altro viaggiator selvatico – mi par di capire – soprattutto verso Oriente rispetto a noi. Che cos’è un podcast? Provo a dire che cos’è per me, il che è anche un modo per spiegare che cosa mi piace del lavoro di Eleonora, alias @painderoute sul web e sui social, e dei racconti audio. E per spiegare che cos’è per me un podcast uso al contrario una canzone “Teorema”, di Marco Ferradini, permettendomi il gioco di parafrasarla, pur essendo un brano d’amore triste. “Prendi una nicchia dille che l’ami, scrivile dichiarazioni d’amore, mandale testi, musiche e poesie, dalle anche spremute di cultura, falla sempre sentire importante, dalle il meglio del meglio che hai, cerca di essere un tenero narrante, sii sempre puntuale, risolvile i guai, e sta sicuro che ti ascolterà, chi è troppo ama attenzione dà”. Ecco, faccio tre esempi. Io amo i viaggi a Nord, il basket, il tennis (e la politica estera). Ho ascoltato con gli occhi innamorati la puntata di Cemento sui passaporti grigi degli apolidi lettoni, la puntata di Gravity, di Sandro Veronesi, in cui si intrecciava la partita più lunga della storia del tennis e la crisi in Afghanistan tra chi voleva ritirarsi e chi no (ricorda qualcosa?) e non mi perdo una puntata di Nba Milkshake, con Davide Chinellato e Riccardo Pratesi. Un podcast funziona o, almeno, mi piace se si appoggia su una comunità di appassionati, se racconta una storia che colpisce per il modo appassionato e sempre anche un po’ personale di raccontarla, se colma il tempo delle nostre solitudini in auto, in autobus, mentre corri, mentre cucini. L’ascesa dei podcast nella nostra dieta quotidiana di informazione e di intrattenimento dimostra due cose bellissime: che il mestiere più antico del mondo è quello di chi racconta storie, del resto è la prima cosa che un bimbo chiede a un genitore dopo il mangiare: raccontami una storia. La seconda è che le passioni non sono quasi mai fini a se stesse, sono quasi sempre il seme di un talento da coltivare, la cornice di un progetto di vita o di lavoro. Se fai una cosa con passione, ti seguiranno con passione. Se racconti una storia di cui sei appassionato, la passione si coglierà nel racconto e questo sarà il primo passo verso il successo del tuo progetto personale e professionale. E tutto ciò è molto rassicurante e ben augurante. Ora però quando arriva la quarta stagione di Cemento?

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