IL PENSIERO DEL DIRETTORE
Antonio Salieri trascorse la maggior parte della sua vita alla corte imperiale asburgica di Vienna
La strada che porta alla vetta è sempre la più difficile
Gli alpinisti? Gente che non ha capito quanto sia bello stare sul divano a guardare la televisione. Personaggi, in verità, che invidiamo perché non siamo capaci di essere come loro. Siccome il mondo è composto più da Salieri* che da Mozart, i tipi come Matteo Della Bordella finiscono per diventare un po’ antipatici. Stanno in quel gotha che, o te li fa amare alla follia, o te li fa guardare con sospetto e un po’ di acidità, richiamando in noi il classico meccanismo dell’uomo medio, tanto diffuso quanto disdicevole: «Perché lui e io no?». Vi consigliamo di andare a vedere su YouTube le avventure dell’alpinista o di ascoltare i suoi racconti. Vengono i brividi anche solo a immaginare la sua vita in parete, le ascese pazzesche, le soste sospeso in aria.
Alcuni studi sostengono che gli alpinisti più coraggiosi non posseggano nel cervello alcune cellule deputate alla paura. Non so se questa sia una leggenda, oppure sia vero. Ma vedendo quello che fa l’alpinista varesino viene davvero da pensare che lui il timore non lo conosca, che il coraggio sia scritto dentro il suo dna. E quindi, noi, poveri Salieri, ci ritiriamo in buon ordine. Torniamo a guardare la tv, al calduccio delle nostre casette, e lasciamo a lui le epiche imprese sulle montagne del mondo. Scalare, però, è il sogno di ogni uomo. Salire verso la vetta è emblema, simbolo della nostra vita fatta di tante difficoltà, di passaggi tortuosi, complicati, quasi impossibili, ma una via d’uscita esiste sempre. Spesso è nascosta, impervia da raggiungere, ma, quando stiamo per cadere, sospesi sul filo della nostra traballante esistenza, c’è il classico colpo di reni che ci tiene su. Sapete il bello qual è? Quasi sempre la strada migliore non è quella comoda e in discesa. Come in montagna il sentiero che ci porta alla vetta è quello buio e periglioso. Ci addentriamo nel fitto del bosco, così come Dante fece nella selva oscura, e speriamo di trovare la soluzione al nostro rebus. Non sempre ci riusciamo ma la lezione che ci arriva da Della Bordella, naturalmente, è di non arrenderci mai. Lui sta su una montagna, da solo e al freddo. Noi stiamo in città piene di comfort: possiamo non riuscirci? La sfida è lanciata.
È vero che siamo tutti Salieri ma qualche volta anche noi – timidi, malfermi e spesso invidiosi – possiamo trasformarci in Mozart e far diventare il nostro compitino un capolavoro. Fuor di metafora alpina e musicale: la nostra vita è sempre su un filo sottile e ci chiede ogni giorno tanta forza e tanta resistenza per raggiungere quella meta che si chiama coronamento dei nostri sogni. Anche se piccoli, a noi sembrano vette ripide e scoscese. Quando le raggiungiamo ci sentiamo un po’ come Matteo quando arriva in cima: felici.
*Antonio Salieri, musicista e compositore del Settecento. Nel film del 1984 di Milos Forman viene ipotizzata la sua responsabilità sulla morte di Mozart in quanto più bravo di lui
IL PENSIERO DEL DIRETTORE
Non ci capiamo niente delle piante e degli animali
Viviamo immersi in un mondo che non conosciamo. L’unica certezza che abbiamo resta legata all’enorme volume delle cose che – come diceva Socrate – non sappiamo. Una, per esempio, è quella che Francesco Rossetti spiega nelle prossime pagine e che parla di un particolare software che permette di percepire la musica delle piante. Sì, avete letto bene. I fiori, gli alberi e le essenze emettono dei suoni che, adeguatamente decodificati, producono melodie che saranno presentate in uno spettacolo a Milano. Tutto ciò è possibile tramite speciali variazioni elettriche che permettono alla vite, piuttosto che al susino, al ciliegio invece del nespolo o dell’ulivo, di esprimersi secondo la normale scala musicale.
Lo so cosa state pensando: il mondo ormai è in mano ai pazzi. Anch’io ho detto così all’inizio. Poi mi sono documentato e ho capito che bisogna cambiare il livello di percezione per comprendere, come si diceva all’inizio, il mondo che ci circonda.
La lezione delle piante, dunque, arriva nel momento in cui le nostre certezze si stanno sgretolando perché l’approccio razionale mostra le sue pecche. La nostra storia non procede in maniera lineare ma spesso è fatta di traumi e di cadute, di fermate e di ri-partenze. Gli alberi, nel loro naturale silenzio, sembrano essere le creature più asettiche del mondo. Invece no. Conservano quella che gli antichi chiamavano anima, fedeli a un concetto panteista del mondo, secondo il quale dio si esprime dentro la natura. Ma sarà davvero così? Boh. Il regno vegetale, comunque, ci ricorda che siamo noi a non possedere gli strumenti di conoscenza adeguati. Dobbiamo smettere i nostri panni umani per immergerci dentro ciò che non conosciamo. E possiamo farlo grazie alla nostra intelligenza che ci permette di costruire degli strumenti adeguati di decodificazione. Discorso simile può valere per il mondo animale. Quando il vostro cane vi guarda con occhi languidi cosa pensate? Lungi da noi qualsiasi tentativo di umanizzazione, ma si percepisce sia per gli animali sia per le piante un livello di espressione che ubbidisce a regole diverse delle nostre ma che non è meno efficace. Dunque siamo noi che, chiusi dentro i nostri metodi percettivi, siamo sordi di fronte al mondo che ci circonda o è tutto ciò che è altro da noi che non si vuole fare riconoscere?
Il quesito è difficile da risolvere. Bisognerebbe procedere con la sperimentazione arrivando a un metodo scientifico tanto provato quanto falsificabile. Per cui ci accontentiamo di fare un passo indietro. Ci rivestiamo di umiltà e ammettiamo di non capirci niente. Né sulle piante, né sugli animali. Figuriamoci sugli uomini e sulle donne.
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I Rolling Stones sono la dimostrazione più evidente che il tempo non passa quando la musica sa essere immortale
I mostri sacri dimostrano la nostra immortalità
Mi chiedo spesso cosa renda una canzone immortale. Davvero, non è un quesito inutile, non è una domanda da perdigiorno. Se noi scopriamo cosa faccia diventare la musica capace di andare al di là del tempo e dello spazio, riusciamo anche a comprendere una parte di noi stessi, del nostro essere uomini e donne non a una dimensione (quella fisica) ma almeno a due, cioè una materiale e una spirituale.
Già li sentiamo i detrattori che chiamano in causa la combinazione delle cellule (?) che riesce a farci piacere o meno un canzone. Oppure tirano in ballo la chimica per spiegare fenomeni come l’amore. Può darsi che sia così. Ma. da inguaribili romantici, ci illudiamo che ci siano altre spiegazioni e che non possono essere trovate nel livello uno, quello che ci vede composti di gambe e di braccia, di cuore e di cervello, insomma di parti del corpo ben definite e, diciamo così, misurabili. La sostanza, però, sta da un’altra parte che non possiamo né dimostrare, né sottoporre alla nostra analisi razionale. Sfugge ma è la chiave di volta di tutto.
Spieghiamo questa tesi (che poi non si può provare) perché dobbiamo trovare una ragione al successo che ancora hanno cantanti e band di trenta o quarant’anni fa (anche di più). L’occasione è il concerto al Forum di Assago di Bryan Adams. Sfido chiunque a non aver mai ascoltato Heaven, a non essersi fatto trasportare sulle sue dolci note. L’effetto è ancora attualissimo, non a caso i concerti dei mostri sacri sono quasi sempre sold out. Non solo per il cantautore canadese nato nel 1959, ma pure per i Rolling Stones, per Bob Dylan, per Bruce Spingstreen e chi più ne ha più ne metta. Quest’estate sono andati sul palco persino i Sex Pistols, o perlomeno una copia scolorita senza Johnny Rotten e naturalmente orfani di quel Sid Vicius che morì, bello e dannato, nel 1979.
In concerto è meglio, ma la musica continua a mantenere il suo enorme carico di emozioni senza importarsene del tempo che passa. Citare i compositori famosi della classica, naturalmente, è un gol a porta vuota. Così come chiamare in causa coloro che hanno scritto pagine memorabili e indimenticabili con le loro melodie, quali sono stati i Beatles. Si torna, dunque, al tema iniziale, al valore immortale di qualcosa che ci prende nell’animo e non ci lascia più. Per i fans di Bryan Adams ascoltare Heaven è sempre come fosse la prima volta. Ed è lì che sta il valore eterno di canzoni che ci segnano. Ben vengano, allora, i dinosauri (li chiamano così) che tornano sul palco. Nessuna nostalgia, al bando la malinconia, sono la dimostrazione che la musica non morirà mai. E, speriamo, noi con lei.
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Per essere felici la vita è fatta soprattutto di illusioni
Lo sapevate che il mercato dei prodotti per la longevità è uno dei più fiorenti in quest’inverno demografico che ci avvolge e ci preoccupa? Sempre più persone vanno a caccia del rimedio che sia in grado di allungare la loro vita. Il marketing fa il resto. Così ci illudiamo di vivere qualche giorno/settimana/mese/anno in più.
Gli antichi la pensavano in maniera un po’ diversa. Credevano nel fato ineluttabile, dominato dalle tre Parche che avevano il compito di tessere il filo, di svolgerlo e, infine, di reciderlo segnando la morte. Da lì non si scappava. Ma ora siamo convinti di essere noi i depositari della verità e i padroni assoluti della nostra esistenza. Un integratore – dunque – può essere l’ideale per tenerci alla larga dagli spettri di una condizione che non conosciamo (quella del dopo morte) e della quale, per ora, facciamo volentieri a meno.
Nonostante queste premesse gli integratori per la longevità – in verità – sono stati oggetto di ricerca fin dai tempi antichi. Dalla medicina greca a quella cinese, filosofi e scienziati cercavano ogni mezzo per prolungare la vita. Oggi, in un mondo pieno di progressi tecnologici e di scoperte mediche, tali prodotti rimangono una scelta popolare per le persone che desiderano migliorare la propria aspettativa di vita e di salute. Questo ci fa riflettere sulla necessità di ognuno di noi di spostare più in là possibile nel tempo l’invecchiamento e il decadimento fisico. D’altronde viviamo immersi in una società che predica la bellezza e la salute. Difficile remare contro. Naturale, anzi umano, cercare qualsiasi rimedio in grado di allungare la vita, anche se il tema dovrebbe essere un altro, cioè quello di migliorare la qualità del nostro tempo non solo di aumentarlo in quantità. Se viviamo in una condizione perenne di infelicità, gli integratori serviranno a poco perché i pensieri negativi saranno il più pesante ostacolo alla nostra longevità. Le energie mentali e psicologiche sono fondamentali per combattere a viso aperto contro il decadimento. Se vengono meno, si fanno passi indietro. La felicità, dunque, è un meccanismo di interscambio tra soggetto e ambiente, in cui gioca un ruolo fondamentale il nostro approccio, al di là degli integratori che assumiamo.
Al centro dell’attenzione, dunque, non deve finire il semplice progredire del nostro tempo affinché duri il più possibile ma soprattutto la nostra ricetta per affrontare al meglio i giorni, i mesi o gli anni (non lo sappiamo) che ancora ci rimangono da vivere. Facciamo questo ragionamento appena ci svegliamo? Di solito no. Magari, però, corriamo a prendere l’integratore. D’altronde la vita – per essere felici – è fatta soprattutto di illusioni.
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La vita è un passo di danza sull’orlo del precipizio
Lo sport è vita e il calcio lo è di più, riuscendo a incarnare in certi Paesi lo spirito di un’intera nazione. Italia e Argentina, in questo, sono due Paesi accomunati dalla stessa passione che, in alcuni casi, si fa religione, ragione d’esistere.
Chi mai potrebbe immaginare l’Argentina senza Maradona, senza Messi, senza Sivori o Di Stefano? E chi può pensare all’Italia senza Riva, Rivera, Mazzola, Paolo Rossi e, perché no, il pupone Totti? Siamo cresciuti facendo la raccolta delle figurine e, prima ancora, la generazione che ci ha preceduto ha giocato a biglie con i volti dei più rinomati campioni. Noi un po’ meno. Ma è con questo spirito che Federico Buffa e Gianfelice Facchetti vanno a teatro. Propongono il loro spettacolo sulla scorta di qualcosa che è stato e sempre sarà, ovvero il calcio che ti entra nel sangue e nella pelle. Lo capisci quando guardi come giocano gli argentini. Si muovono come se stessero ballando. Non a caso il giornalista fa riferimento alla milonga perché è proprio quella danza così musicale e così ritmata che ti fa venire in mente il D10s che si fa beffe della difesa inglese e segna quel magnifico gol all’Inghilterra nel 1986 dopo la famosa Mano di Dio che è l’atto di ribellione di un popolo che riesce finalmente a sconfiggere i dominatori. C’è tutto in quel gesto e ci sono i passi della milonga, secchi, quasi sincopati nel saltare gli avversari. Un ballo che è un gioco ma un gioco molto serio, quello del calcio e quello (come si diceva sopra) della vita. Sull’orlo del precipizio.
Come è possibile che un pallone sia capace di scatenare così tante emozioni, che guidi il sentimento di un popolo, che esprima la quintessenza della gioia e della felicità? Succede e accadrà ancora finché ci sarà qualcuno che alzerà le braccia al cielo per celebrare una vittoria ma pure proverà a reagire dopo un’inopinata sconfitta, tentando con tutte le sue forze di riprendersi dal k.o. per ritornare a vivere. Anzi a vincere.
Ed è il confine tra morte e vita che si ritrova dentro quel trauma del 4 maggio 1949 quando il Grande Torino si schiantò in aereo contro il colle di Superga. Una tragedia che ha ferito l’Italia e il mondo, che si celebra con commozione e spirito di fratellanza perché non c’era solo una squadra forte e gloriosa su quell’aereo. Sopra il velivolo stavano quegli uomini con le loro valigie piene di sogni. Dentro quei bagagli va a guardare Gianfelice Facchetti che poi racconta il dramma di un’intera generazione che, pian piano, ha provato a lasciare lo spazio della rinascita. La rivincita non è solo del calcio ma di un Paese intero – l’Italia – che esce dal dopoguerra e che, al passo ritmato della milonga, come gli argentini, spera in un futuro migliore. Grazie al calcio e alla sua inesauribile forza passionale. È lo sport, è la vita. Ve l’avevamo detto in principio.
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La filosofia del «boh» per andare oltre Marina
Dici Marina Abramović e rispondi: «Boh». L’espressione non deriva dal fatto di non conoscerla – ormai il nome dell’artista e performer di origine serba è noto in tutto il mondo – ma perché resta sempre un filo di incredulità, se non di imbarazzo di fronte alle sue esibizioni. Sono un autentico tentativo per esplorare se stessi e il mondo, per capire la realtà circostante o, almeno, per emozionarsi; oppure si tratta semplicemente di espedienti pubblicitari, scatenati dal meccanismo dell’auto-convincimento, in cui ci sentiamo anche un po’ presi in giro?
Come si diceva all’inizio, la risposta è: «Boh». Nel 2012 il Padiglione di Arte Contemporanea di Milano ha ospitato il Metodo Abramović. Chi partecipò a quell’evento (non tutti, però) ne uscì entusiasta. Da allora ad oggi il successo è aumentato. L’artista segna il nostro tempo, traccia un solco oltre il quale bisogna per forza voltare pagina. Ed è per questo che – piaccia o non piaccia – va apprezzato il suo impatto. Se non altro fa riflettere su una frase contenuta nella Prima Lettera di Giovanni che viene spesso ripresa quando si parla del periodo in cui viviamo, per lo più caratterizzato dal mordi e fuggi, dal rapido e repentino cambio di prospettiva: sic transit gloria mundi (in italiano: così passa la gloria del mondo; in senso lato: come sono effimere le cose del mondo). Questa è la famosa locuzione latina che richiama Marina Abramović e che ce la riporta in tutta la sua forza dirompente. Ci fa toccare con mano l’estrema labilità del nostro essere e delle nostre azioni. Una perfomance per capire, dunque, e per interrogarsi su quanto sia fragile la nostra condizione. L’arte di tutti i tempi ci insegna questo. La performer americana adatta il messaggio al periodo attuale in perenne cambiamento ed è in questo contesto che si sviluppa una riflessione che deve e può andare oltre la parola «boh».
Il gesto diventa perciò una chiave di interpretazione della realtà. Ma il suo significato non è univoco. È relativo perché diversi sono i punti di vista, diversi sono gli sguardi, così come quando ci poniamo di fronte a un’opera d’arte e ognuno percepirà un messaggio che non è uguale a quello di un’altra persona perché parte da una visuale che non è la stessa. L’arte, dunque, insegna la diversità e il rispetto, il confronto e l’ascolto. Non è poco in un universo come il nostro dove sembra che l’abbiano vinta solo la prevaricazione e la prepotenza. Al «boh» iniziale, quindi, si può contrapporre il «proviamo a capirci». Grazie Marina per avercelo insegnato. Lo sapevamo già, ma è sempre meglio ricordarcelo.
La performance del 2012 al Pac di Milano (@Laura Ferrari): chi vi partecipò vi restò estasiato, alcuni però furono delusi.