Mi piacerebbe essere uno psicologo o uno psichiatra per avere un’idea di risposta a interrogativi che mi ronzano in mente assistendo ad alcuni fenomeni legati alle nuove tecnologie e ai media in generale. Per esempio, perché ci piace tanto guardare trasmissioni che riguardano cuochi o comunque persone che cucinano, come Masterchef e affini, anche se non possiamo assaggiare con il senso del gusto i loro piatti? Perché i nostri figli o i nostri nipoti amano guardare loro coetanei alle prese con l’ennesima sfida all’ennesimo videogioco, anche se loro non stanno giocando in prima persona? Perché invece di telefonare ora scriviamo o mandiamo audio, con la nostra voce dunque non in diretta ma registrata? Perché non ci stupisce più ascoltare la maestra dei nostri figli o dei nostri nipoti che ci dice: «Non si preoccupi se scrive male, se ha una brutta grafia, tanto a mano da grande non scriverà mai…»? Perché lentamente ma inesorabilmente la lettura di un libro viene via via sostituita da qualcuno che ci legge un (audio)libro o da un podcast ad alto contenuto e spirito narrativo? Perché mentre tutto sta diventando virtuale, come nel Metaverso di Mark Zuckerberg, la (seconda) realtà virtuale al posto del mondo reale, tutto sta anche diventando a portata di touch, di tocco delle dita, dal telefonino al self service al benzinaio? Perché, però, anche se usiamo le mani per comunicare via computer e via smartphone, la voce intanto sta per riconquistare uno spazio quando chiediamo ad Alexa o affini di contare dieci minuti per la cottura della pasta o di mettere su Radio Radicale?
Il sottofondo di risposta che mi veniva in mente, mentre queste caotiche domande mi ronzavano in testa, era che in fondo i media in generale e le nuove tecnologie in particolare, soprattutto quelle legate alla rete Internet e alle app, stanno abolendo i cinque sensi, mentre provocano una sempre più spiccata disintermediazione e dunque spersonalizzazione delle nostre relazioni con i nostri simili e con la realtà circostante. In verità, però, mi rendo conto che questa è una risposta pigra e conservatrice, timorosa e preoccupata. Forse, per essere più ottimisti e fiduciosi nel futuro, è più corretto dire che stiamo vivendo un rimescolamento dei cinque sensi e uno sviluppo di un sesto senso figlio delle nuove funzioni affidate ai nostri tradizionali cinque sensi. Per questa ragione mi piacerebbe tanto essere uno psicologo o uno psichiatra per cercare di abbozzare una risposta su quale prospettiva potrà mai derivare da questa commistione ormai inevitabile tra i sensi, la realtà e la nostra sempre più attiva immaginazione. Cioè, che tipo di vita ci sarà e che tipo di persona nascerà dalla convivenza costante e creativa tra i cinque sensi e il 5G?