L’idea che non giochi più in Italia non è poi così grave per un calciatore che ha rischiato di non vivere più e di non giocare più. La cosa più intollerabile, più ingiusta, più inelegante – credo non soltanto per noi innamorati che viviamo nelle ombre malinconiche che colmano la distanza tra il nero e l’azzurro – è che non giochi più con quella maglia lì. È come un puzzle, la vita è come un puzzle e il calcio spesso ne è lo specchio fedele, troppo fedele, tanto da far male, quando la notizia è brutta. Platini e la maglia di quella squadra là. Falcao e la maglia della Roma. Maldini e la maglia del Milan. Maradona e la maglia del Napoli. Ci sono coppie di soggetti che puoi tenere distanti ma non puoi cancellare, non puoi scoppiare. La simbiosi non è un effetto di scelte, non è un fatto che analizzi ex post, è una natura comune che deriva ex ante. Le affinità elettive non si creano con i fatti, la simbiosi tra un giocatore e una squadra non si crea con il giocare tanti anni con quella maglia lì, sono i fatti che sono frutti che derivano da affinità elettive. Ci sono pezzetti, nella vita, che si incastrano perfettamente e mostrano la figura in tutto il suo splendore e pezzetti che, anche se sembrava che sì, non s’incastrano neanche a colpi di martello. Ci sono giocatori fatti per giocare con quella maglia lì. Il suo caracollare dolce. Il suo sorriso mesto ma leale in panchina. La sua stempiatura saggia. Le sue dichiarazioni sempre dentro le righe, mentre continuava a entrare e a giocare perfettamente tra le linee. Il suo segnare i gol decisivi quasi chiedendo grazie di essere stato messo (dalla sorte) al momento giusto nel posto giusto. Le sue punizioni con quella maglia lì sovvertivano il concetto insito nel termine: non puniva il portiere avversario, lo graziava da ogni colpa, visto che un’eventuale sua colpa sarebbe stata indispensabile e funzionale al suo gesto letterario. Il suo cadere in avanti agli Europei. Il suo essere abbracciato dai compagni. Il suo essere accudito – e voi lo chiamereste mai caso? – dal capitano della sua nazionale che milita nella prima, seconda squadra di Milano. Il suo ritorno tra gli altri compagni per baci e altri abbracci. Il suo cuore. Il suo 24 come le ore del giorno. Il suo vedere l’azione prima di scalpellare il marmo del gioco per farne venire fuori la verticalizzazione giusta. Il suo cortese attendere. Il suo cortese accelerare. Il suo cortese temporeggiare. Il suo cortese ritornare, perché se noi poi quello là chi lo sente. Il suo cortese fare il proprio dovere sempre con un tocco diverso dai comuni mortali. Il suo sguardo nostalgico è la chiave di tutto. La prova provata sul campo che avere gli occhi un po’ tristi significa poi non piagnucolare mai. Che dire del poeta danese? Che da oggi i colori sociali dell’Inter saranno il nero, l’azzurro e l’oro Eriksen.

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