La vita è un passo di danza sull’orlo del precipizio

Lo sport è vita e il calcio lo è di più, riuscendo a incarnare in certi Paesi lo spirito di un’intera nazione. Italia e Argentina, in questo, sono due Paesi accomunati dalla stessa passione che, in alcuni casi, si fa religione, ragione d’esistere.
Chi mai potrebbe immaginare l’Argentina senza Maradona, senza Messi, senza Sivori o Di Stefano? E chi può pensare all’Italia senza Riva, Rivera, Mazzola, Paolo Rossi e, perché no, il pupone Totti? Siamo cresciuti facendo la raccolta delle figurine e, prima ancora, la generazione che ci ha preceduto ha giocato a biglie con i volti dei più rinomati campioni. Noi un po’ meno. Ma è con questo spirito che Federico Buffa e Gianfelice Facchetti vanno a teatro. Propongono il loro spettacolo sulla scorta di qualcosa che è stato e sempre sarà, ovvero il calcio che ti entra nel sangue e nella pelle. Lo capisci quando guardi come giocano gli argentini. Si muovono come se stessero ballando. Non a caso il giornalista fa riferimento alla milonga perché è proprio quella danza così musicale e così ritmata che ti fa venire in mente il D10s che si fa beffe della difesa inglese e segna quel magnifico gol all’Inghilterra nel 1986 dopo la famosa Mano di Dio che è l’atto di ribellione di un popolo che riesce finalmente a sconfiggere i dominatori. C’è tutto in quel gesto e ci sono i passi della milonga, secchi, quasi sincopati nel saltare gli avversari. Un ballo che è un gioco ma un gioco molto serio, quello del calcio e quello (come si diceva sopra) della vita. Sull’orlo del precipizio.
Come è possibile che un pallone sia capace di scatenare così tante emozioni, che guidi il sentimento di un popolo, che esprima la quintessenza della gioia e della felicità? Succede e accadrà ancora finché ci sarà qualcuno che alzerà le braccia al cielo per celebrare una vittoria ma pure proverà a reagire dopo un’inopinata sconfitta, tentando con tutte le sue forze di riprendersi dal k.o. per ritornare a vivere. Anzi a vincere.
Ed è il confine tra morte e vita che si ritrova dentro quel trauma del 4 maggio 1949 quando il Grande Torino si schiantò in aereo contro il colle di Superga. Una tragedia che ha ferito l’Italia e il mondo, che si celebra con commozione e spirito di fratellanza perché non c’era solo una squadra forte e gloriosa su quell’aereo. Sopra il velivolo stavano quegli uomini con le loro valigie piene di sogni. Dentro quei bagagli va a guardare Gianfelice Facchetti che poi racconta il dramma di un’intera generazione che, pian piano, ha provato a lasciare lo spazio della rinascita. La rivincita non è solo del calcio ma di un Paese intero – l’Italia – che esce dal dopoguerra e che, al passo ritmato della milonga, come gli argentini, spera in un futuro migliore. Grazie al calcio e alla sua inesauribile forza passionale. È lo sport, è la vita. Ve l’avevamo detto in principio.