Siamo al caffè e non è certo poca cosa. Anzi. Il caffè è l’esempio perfetto di che cosa sia e di come sia unica la nostra economia: non ne abbiamo, ma ne produciamo il migliore e lo facciamo praticamente soltanto noi così al mondo.
Il caffè non popola tanti film, o quanto meno non me li ricordo: lì è sopravanzato, fino a un po’ di tempo fa, dalla sigaretta a bordo labbro e sempre dal bicchiere di vino o più. Però le canzoni ci sono, da Pino Daniele ad Alex Britti (addirittura centomila!), da Riccardo Del Turco a Fiorella Mannoia. E anni fa c’era una carinissima sit-com italiana con Luca (Bizzarri) e Paolo (Kessisoglu) che faceva ridere raccontando storie che accadevano sempre e soltanto davanti a una macchinetta del caffè, in camera caritatis, in Camera Cafè. Ma non è questo il punto. Il punto è che il caffè definisce l’arredamento dei nostri bar: qui c’è il bancone alto ma senza sgabelli per un caffè al volo, in altri posti ci sono gli sgabelli perché ci si siede per una birra o uno scotch. Noi amiamo tutte le 50 sfumature di caffè, anche se siamo conosciuti in tutto il mondo per il semplicissimo espresso. Qui da noi le persone si definiscono per come lo prendono: americano, amaro, con latte freddo o caldo, corto o lungo, macchiato o no, corretto e come. Il caffè dice di noi che siamo tantissime cose diverse su un gusto e un sapore e una forza costanti. Il caffè definisce le fasi delle nostre giornate, coffee break?, perfino i tempi della nostra vita, certamente alcuni approcci, anche perché “ti offro un caffè” si porta meglio di “hai una sigaretta?” o “di che segno sei?”. E d è molto meno imoegnativo e appariscente e adulto. Ho sempre pensato, a proposito delle fasi della vita, che mio nonno Ugo, Annibale da partigiano, avesse smesso di voler vivere ancora a lungo quando aveva perso la possibiltà di andare a prendere da solo il caffè in paese, al bar, sulla piazza principale. Più che un rito quotidiano, l’affermazione di un’identità, spirituale e corporea, ancora in forma. Il caffè infatti è la cosa che chiude qualcosa dando la forza di non andare ancora a dormire, ma di fare qualcos’altro, di ricominciare, di guidare più sicuri, di farne ancora un pezzetto di quel lavoro o di quello studio che devo finire prima di andare a dormire. Anche se, fin dai tempi dell’università o del primo lavoro, c’è sempre quella o quello che dice: «Pensa che io lo prendo prima di andare a letto, ormai non mi fa più nulla…». E qualcuno che risponde: «Lascia stare, a meno no, non va così. E stamattina sono già al quarto, ora di sera…». Pensate poi la bellezza dell’idea del caffè sospeso, dove c’è tutto il calore del sud, dove c’è tutto il senso dell’offrire ed è un senso talmente significativo che conta l’atto e non si sa nemmeno chi lo riceve.
Come fare un giornale. Grazie di tutto, io lo prendo un po’ lungo.