Confesso che non mi fa molto piacere vedere il mio interlocutore che scarabocchia strani disegni su un foglio mentre mi sta ascoltando. Penso che senta me e, intanto, divaghi su altro. Mi spazientisco. Eppure se mi fermo e lo interrogo su ciò che sto dicendo, lui è sul pezzo. Non si è distratto un attimo. Stessa scena al telefono. Sempre quel tale riceve una chiamata e, mentre parla, si diverte a comporre opere di arte astratta su un foglio. Ognuno ha il suo stile. C’è chi disegna i cuori, chi i circoletti, chi le righe, chi strane greche di impossibile decifrazione. Dicono che questo metodo di libera creazione degli scarabocchi serva a concentrarsi, non a distrarsi, sia utile per focalizzare le idee invece che per disperderle.

Può darsi, anche se la prima impressione è di fastidio verso chi ti deve ascoltare e si dedica a comporre astrusi disegnini.
Dicono, ancora, che questi geroglifici abbiano l’effetto taumaturgico di liberare l’inconscio dalle paranoie e dagli ostacoli che la mente umana incontra ogni giorno sul suo cammino. Può essere, ma risulta difficile interpretare quei segni come se fossero una mappa del tesoro per comprendere cosa ci sia nel nostro cuore e nel nostro cervello. Passato il nervoso, però, iniziano le domande.

La prima, fondante, va all’origine di quegli scarabocchi. Grafologi e psicologi hanno le loro spiegazioni tecniche. Banalizzando, interpretano il cuore come la ricerca d’amore, i tratti discontinui come voglia di conflitto e altro ancora. Ma non ci bastano questi rilievi, vogliamo andare più nel profondo e ci rendiamo conto, perciò, che quei segni sono la manifestazione di qualcos’altro che è in noi ma non viene espresso in senso compiuto. Un po’ quel che accade nei sogni dove il nostro inconscio libera dei segnali che rimandano a contenuti diversi. E qui si apre un mondo. Inesplorato. È il nostro destino quello di arrivare fino a un certo punto, di sporgerci sulla soglia del burrone senza riuscire a interpretare ciò che ci sta sotto. Ci troviamo di fronte a quel senso di vuoto e di incompiutezza che è tipico della condizione umana.

Ci viene in soccorso, allora, la filosofia greca (e chi sennò?). Platone diceva che l’uomo è privo di virtù naturali, sarebbe cioè dotato in maniera inadeguata rispetto agli animali, e non potrebbe vivere in un ambiente non artificiale, perché non lo capirebbe. Nel XV secolo il tema è stato ripreso da Pico della Mirandola che ha definito l’uomo come animale indeterminato, incompleto, e per questo libero di compiere le sue scelte. Essendo biologicamente manchevole, sopperisce alle carenze con l’ingegno. Ma, ogni tanto, la realtà gli sfugge di mano e torna, con gli strani disegni, a quell’accozzaglia che ha in testa. Spiegazione troppo complessa? Forse. Ci vorrebbe uno scarabocchio per spiegarla meglio.