ll mondo è pieno di gente che pretende di insegnarti a vincere. Ma colui che farà davvero la tua fortuna è quello che ti insegnerà a perdere, ricordalo”. Potrebbe essere l’incipit di un romanzetto. E invece è vita vera. Saper perdere, assorbire i colpi della sorte o degli uomini, questa è alta scuola. Perché le sconfitte possono segnare di brutto e si rischia di smarrire per sempre la voglia di lottare e di poter tornare a vincere. Il poeta diceva che la vita deve essere vissuta e non pensata. Diceva benissimo. Invece noi ci siamo abituati, da troppo tempo, a pensare la vita prima di viverla, a progettarla secondo schemi rigidi e prevedibili che vanno a pezzi alla prima difficoltà. Programmiamo la felicità, la pretendiamo, e ci stupiamo se non arriva all’ora stabilita. La verità è che pensiamo in modo mediocre e a furia di ragionarci su restiamo nel limbo, immobili. Pretenziosi senza il coraggio di rischiare, prudenti al limite del conservatorismo tremebondo e imbelle, figli di filosofie spicce e di una manualistica buona per ogni occasione, finiamo per non inventare più nulla. E così abbiamo atrofizzato il motore della creatività e della fantasia. Se fossimo nati in Giappone sapremmo almeno cos’è la nobiltà della sconfitta e quanta cultura c’è alle spalle. Ma temo che nemmeno più laggiù ormai ci credano, perché nel grande tritacarne della banalizzazione delle idee tutto viene omogeneizzato e le particolarità, che sono il sale della vita e la ricchezza del mondo, scolorano e spariscono, proprio come le mille sfumature di un prato su cui venga stesa una colata di asfalto. Abbiamo relegato le diversità nel solo campo dell’alimentazione, siamo la civiltà della gola raffinata, difendiamo con vigore e stravediamo per la tal insalatina, la caciottina ed il vinello. Ma non ci importa un fico secco di particolarità meno commerciali. Ci appassioniamo a ridicole esclusività che sono poi fenomeni di massa e ci commuovono le figurine delle biodiversità. Invece le differenze culturali, le infinite variazioni e variabili del pensiero umano ci disturbano fino a negarle o a volerle reprimere. Ma c’è un problema: il pensiero unico non aiuta a vincere ma neppure a perdere con la dovuta eleganza. Sparito il doverismo, che sarà pur stato per molti uno sciocco disvalore borghese ma ha aiutato non poco il mondo a crescere, ci siamo avviati nel meraviglioso regno del dovutismo. Quello dominato dalla divinità del grande vincente, dall’uomo e dalla donna di successo, dal diritto alla felicità minima (o massima, che è anche meglio) garantita, dalla pretesa che diventa dogma, dal voglio tutto e subito! Mia nonna, per darmi la mancetta quando ero ragazzino giocava talvolta con me a carte. Mi aveva insegnato il gioco chiamato Sette e mezzo. Lei perdeva con metodo, fingendo anche stupore per la cattiva fortuna che si procurava scientemente. Incassavo volentieri le monete e nel frattempo imparavo nuovi significati dell’arte della sconfitta e della vittoria. In un universo di allenatori della vittoria, siano benedetti quelli che ti insegnano a, e soprattutto come, perdere.

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