#Oltre n°35/2023 | Il sapore della terra e lo spirito del suo popolo

#Oltre n°35/2023 | Il sapore della terra e lo spirito del suo popolo

I sapori non sono tutto ma sono molto
nella vita. Scoprirli, ricercarli, trasmetterli
diventano attività che danno una grande
gratificazione. Così Roberto Valbuzzi ha
raccolto la tradizione di famiglia per
continuare a incuriosire e incuriosirsi, per
comunicare a un pubblico sempre più vasto il culto della tavola. Che non è una cosa scontata.
Seduti al nostro desco trascorriamo alcuni dei momenti più belli della nostra vita, non dimentichiamolo mai. Ciò che ci sembra
scontato nell’esistenza di tutti i giorni, è
qualcosa di molto prezioso che andrebbe preservato e conservato in eterno perché il gesto del mangiare non è il semplice alimentarsi ma comporta tutta una serie di altri momenti che vanno dal gustare il cibo, al
conversare con le altre persone, dall’assaggiare un buon vino allo stuzzicare il palato con piatti che riescono a diffondere il piacere.
C’è tutto attorno a una tavola e Roberto Valbuzzi lo ha capito da subito nel
suo crotto e sul libro che ha scritto e che contiene alcune ricette semplici e delicate ma non per questo meno cariche di personalità.
Riscoprire i sapori di un passato che è tutt’altro che defunto permette di ritrovare le radici di una terra, quella lombarda, che solo in apparenza si mostra indifferente a tutto ciò che succede intorno, in verità assorbe e medita sul contesto e rilascia un identikit unico e irripetibile. Questa è la sua identità. Volendo filosofeggiare, si potrebbe definire come lo spirito del suo popolo che arriva dalla storia ma si proietta nel futuro e va a caccia di nuovi lidi, vuole superare frontiere sempre diverse. Per andare ancora più pesanti, un territorio – qualsiasi territorio, tanto più quello lombardo – esprime una propria weltanschauung, una visione del mondo che innerva ogni cellula del suo agire.
Così pure nella cucina. E non prendete per pazzi quelli che cercano di spiegarvi queste cose perché Valbuzzi è andato – con conoscenze raffinate e istinto originale – alla ricerca di questi sapori e li ha trasformati in un grande contenitore etno-sociologico, cioè riscoprendo arcaiche origine per riportarle alla modernità.
Operazione riuscita? Il successo che sta riscuotendo in questo periodo – al di là delle apparizioni televisive – dimostra che la
missione funziona. Roberto Valbuzzi – come spiega nel titolo del libro – è un cuoco, ristoratore, contadino. Fateci caso, in questi tre termini ci sta tutto: le conoscenze in cucina, la capacità di accogliere gli altri e la volontà di non dimenticare le proprie origini ma di mostrarle con rinnovata passione e entusiasmo perché «la bellezza – dice con
fierezza – è amore per ciò che si fa».
Con gusto, naturalmente.

#Oltre n°35/2023 | Il sapore della terra e lo spirito del suo popolo

#Oltre n°34/2023 | Quando la fotografia trasforma la realtà

La forza dell’immagine supera quella della realtà. Ce ne siamo resi tutti conto in quest’epoca digitale, in cui passiamo le giornate a scorrere Instagram o a guardare sui social come una volta si spiava dal buco della serratura. Ma sbaglia chi pensa che questa sia una moda del momento. In verità c’è sempre stato il desiderio di rappresentare ciò che ci sta intorno creando delle immagini che fossero il più possibile aderenti alla realtà, oppure confacenti con quanto noi avevamo in mente e volevamo mostrare agli altri.

Pensate alle incisioni rupestri, alle illustrazioni pittoriche o alle fotografie della prima epoca che comportavano un notevole dispendio tecnico ed economico ma erano molto richieste da chi se le poteva permettere. Ora, con il telefonino, è tutto risolto. Viviamo con l’assillo di far vedere ciò che vediamo. Si chiama condivisione, in verità questo fenomeno dovrebbe essere semplicemente descritto come ansia da protagonismo, anzi bisogno spasmodico di affetto e di attenzione. Ma sulla creazione di questo mondo finto non vogliamo addentrarci ora. Piuttosto ci interessa soffermarci sul valore e sull’importanza dell’immagine che, se non viene drogata da quella che poco sopra abbiamo descritto come bulimia di apparire, ha un forza evocativa tremenda perché rimanda al senso ultimo delle cose e al loro significato.

Questo e altro ancora si può trovare nella prima edizione della Festa della Fotografia che si tiene a Milano. Un Big Event – così viene descritto – rivolto a coloro che amano questo settore, vogliono cimentarsi con i più rinomati brand e confrontarsi con chi ne capisce più di loro.
Spesso un’immagine dice più di tante parole e ha un valore comunicativo superiore a qualsiasi discorso perché ormai c’è poca pazienza nell’ascoltare e poco tempo nell’analizzare ciò che viene argomentato. Si preferiscono la frase breve, lo slogan, la dichiarazione ad effetto. Ecco perché una fotografia può riassumere un concetto più di tanti discorsi e riesce a raggiungere con più facilità l’interlocutore. Non sempre, però, nonostante strumenti tecnici sempre più sofisticati, riusciamo a riassumere in uno scatto ciò che vorremo dire. In questo si percepisce la distanza tra semplici scattatori e professionisti. I primi ci provano ma non ci riescono (e sono la larghissima maggioranza), gli altri centrano l’obiettivo (è proprio il caso di dirlo) perché – per conoscenze ed esperienza – lo sanno fare. La Fiera della Fotografia diventa la loro vetrina. Basta sfogliare il catalogo e poi fare un giro a Milano per rendersene conto. Dove c’è qualità l’immagine si trasforma in presenza. Vera, reale, autentica.

#Oltre n°35/2023 | Il sapore della terra e lo spirito del suo popolo

#Oltre n°33/2023 | I gusti alimentari cambiano con le mode

In campo alimentare non ci si capisce quasi più niente. Ogni giorno escono nuove mode e i gusti sono in continuo cambiamento. Qualche tempo fa hanno fatto notizia i grilli. La loro farina – assicurano gli esperti – è gustosa e nutriente. Meglio non saperlo, però, se la usano per qualche piatto di tendenza che viene servito nel locale dove tutti quelli che vanno se la tirano un sacco. Meglio mangiare e zitti. Il giorno dopo ci si può perfino vantare con gli amici. Il cibo, d’altronde, è diventato un fatto di costume, non più solo un elemento indispensabile per il nostro sostentamento. In più, vivendo in un mondo libero, slegato da qualsiasi forzatura e convenzione, ognuno può scegliere ciò che più preferisce, convinto di trarne il massimo della soddisfazione.

In quanto ad abitudini alimentari da sempre hanno avuto un ruolo importante i vegetariani, coloro che evitano in tutto e per tutto la carne e il pesce. Poi abbiamo scoperto i vegani che sono più intransigenti, ponendo come regola quella del no a qualsiasi prodotto di derivazione animale. Ma la demarcazione vegetariani-vegani non è la sola. Anzi. Si nutre di numerose gradazioni e, ultimamente, si è parlato molto dei plantani, cioè di coloro che hanno una dieta a base di piante. Francesco Facchinetti, a domanda specifica, ha detto di essere un plantano. Che non è la stessa cosa di vegano, né di vegetariano.

Ma non è neppure questa l’ultima frontiera dell’alimentazione. La tendenza più attuale è quella dei Plant-Based, cioè di coloro che consumano alimenti con sostenibilità a kilometro zero totale. Non solo vegetali ma pure prodotti senza l’utilizzo di ciò che inquina l’ambiente, fosse anche un camion che li trasporta da un luogo all’altro. Non è semplice osservare questa dieta, anzi verrebbe da chiamarla disciplina. Prima di tutto perché – nonostante i sostenitori la difendano a spada tratta – dispone di alimenti molto meno buoni e gustosi di chi ha una dieta diversificata. Inoltre non è semplice approvvigionarsi sempre a kilometro zero. Le forniture non riescono a rispondere a tutte le richieste.

Importante, però, è la filosofia alla base di Plant-Based che si può riassumere in una frase: «Sto bene io, sta bene l’ambiente». Concetto bellissimo ma di difficile applicazione nel momento in cui ci si trova in un mondo già preordinato in un altro modo. Per tutte le grandi rivoluzioni – si sa – bisogna combattere. Quindi anche il Plant-Based, per affermarsi, dovrà vendere cara la pelle. Anzi, per restare in tema, dovrà attendere che dia i suoi frutti. È il proprio il caso di dirlo: bisogna aver pazienza che sboccino i fiori. Poi la rivoluzione alimentare potrà compiersi. Per ora, su questo tema, vigono troppe mode e tantissima confusione.

#Oltre n°35/2023 | Il sapore della terra e lo spirito del suo popolo

#Oltre n°31/2023 | Testa o croce per buttarsi sulle ali del parapendio

Ci sono fior di trattati sulla percezione del rischio. C’è chi non avverte il pericolo in frangenti particolarmente delicati e chi preferisce alzare tutte le sue difese anche se non ci sarebbe un bel nulla di cui avere paura. Chi si butta con il parapendio una buona dose di coraggio la deve avere per forza. Se non altro perché, quando davanti ai propri occhi si presenta il vuoto, è normale ritirarsi. Invece no. Ti lanci nel vuoto e vedrai quello che accade. Non per scomodare (anche stavolta) il buon Alessandro Manzoni ma, come diceva descrivendo don Abbondio, se uno il coraggio non ce l’ha, mica se lo può dare.

Di fronte al parapendio ci sentiamo un po’ tutti come il prete intimidito dai bravi e vadano a quel paese tutti i discorsi sul sogno dell’uomo di volare, sugli ideali di libertà e sul desiderio di imitare Icaro (che non fece una bella fine). Esiste una percezione del rischio – dicevamo all’inizio – che ci frena. Ci impedisce di abbracciare le emozioni più belle ma ci tiene pure al riparo dal pericolo maggiore, che è quello di morire. La vita, in fondo, è una partita a testa o croce nello scegliere la via giusta: il rischio o la prudenza. Dopo il Manzoni ci vengono ancora in soccorso i filosofi greci che, almeno su questa questione, loro che hanno studiato e conosciuto tutti gli anfratti dell’animo umano, parlano con cognizione di causa. Peccato, però, che ci diano indicazioni di senso opposto. Aristotele è diventato famoso – tra le mille cose – per la sua medietas, spiegandoci che la virtù sta nel mezzo, mai nell’eccesso. Dovendo scegliere, dunque, di buttarci con il parapendio rispetto allo stare seduti sul divano, dovremmo propendere almeno per andare a correre, una via di mezzo tra l’attivismo che sconfina con l’esagerato pericolo e la totale pigrizia di chi conosce come unico sport quello di schiacciare i tasti del telecomando.

Questione risolta, dunque: addio parapendio perché, come si suol dire, il gioco non vale la candela. Eh no, perché è il collega e successore di Aristotele, cioè Platone a portarci su una strada opposta e piuttosto impervia. Nel Fedone (il Dialogo che descrive la morte di Socrate) ci spiega che «il rischio è bello». Quale migliore occasione di sperimentare questa massima, buttandosi con il parapendio? Ma è l’esatto contrario di quello che ci diceva lo Stagirita (il soprannome di Aristotele che era nato a Stagira, città della penisola calcidica). Dovendo scegliere, allora, propendiamo per i consigli di quest’ultimo, anche se al liceo ci era più antipatico lui di Platone. Ma stavolta è troppa la paura che la cera delle ali possa essere disciolta dal sole. Perché i sogni, si sa, muoiono all’alba.

#Oltre n°35/2023 | Il sapore della terra e lo spirito del suo popolo

#Oltre n°30/2023 | Il bento-box di Murakami che preferisce gli spaghetti

Quando sento parlare di Giappone, non so perché ma mi viene subito in mente Haruki Murakami, sarà perché amo immensamente questo scrittore o perché la mia ignoranza è talmente profonda di questo Paese che conosco bene o male solo lui, anzi i suoi libri. Stavolta, però, vale un altro argomento che è quello del cibo, confezionato con ordine nei bento-box, quei contenitori che dalle nostre parti venivano chiamati schiscetta ma si sono evoluti e ora sono pure di moda. Non mi sembra che Murakami ne parli nei suoi libri, o non me ne ricordo. Ma il portavivande giapponese sta avendo successo anche in Europa.

Ci puoi mettere di tutto, l’importante è che lo confezioni con ordine e con un tocco di artisticità e originalità. Portata d’obbligo (o quasi) è il riso. Il resto va a piacimento. In un mondo che sembra piombato dentro la confusione, il bento-box è una bella espressione di ordine e di misura. Quindi potrebbe diventare il soggetto ideale per il prossimo libro di Murakami che sa raccontare con precisione chirurgica non solo la realtà fattuale ma persino i sogni e le fantasie. Aspettando che lo scrittore giapponese ci diletti con una sua opera a tema, possiamo porci delle domande sul nostro rapporto con il cibo.

In un’epoca in cui tutto viene divorato con bulimica facilità, il nutrimento ha perso la sua valenza primitiva di semplice materia di sostentamento per diventare qualcosa di più e di diverso. È il nostro modo di rapportarci con il mondo e di scegliere ciò che ci piace, affinché abbiamo soddisfatti i nostri desideri alimentari. Il bento-box viene in soccorso di queste esigenze anche a chi ha poco tempo di dedicarsi alla propria alimentazione. In una scatoletta con coperchio, infatti, ci stanno i profumi, i colori, i gusti che ci permettono di ritrovare noi stessi. Concetto troppo filosofico della schiscetta? Forse sì, ma provate a cercare su internet le immagini del bento-box e vi sembrerà di essere ritornati nel mondo di Barbie (che va anche di moda).

Un universo che ci fa evadere dalla realtà pur mantenendoci dentro, perché non c’è nulla più del cibo che ci tiene ancorati a questa terra. È un’esperienza che ci mette a confronto con una cultura diversa dalla nostra ma che può essere anche nostra, considerato che ormai le contaminazioni sono all’ordine del giorno.
Pensando al Giappone, quindi, non penserò solo a Murakami d’ora in poi. La mente cercherà risposte nei bento-box. Con un piccolo particolare, però, che ci è sfuggito in questa breve narrazione. Quando viene in Italia l’autore di Norvegian Wood non è che si porti la scatoletta. Si siede al ristorante e va matto per la pasta. Ecco.

#Oltre n°35/2023 | Il sapore della terra e lo spirito del suo popolo

#Oltre n°29/2023 | La lezione di Violetta che piace tanto ai giovani

La Traviata è un’opera simbolo che anche i non esperti di lirica, almeno nel nome, conoscono. Sanno che è di Giuseppe Verdi ma non tutti sono al corrente della storia La Traviata è un’opera simbolo che anche i non esperti di lirica, almeno nel nome, conoscono. Sanno che è di Giuseppe Verdi ma non tutti sono al corrente della storia che la caratterizza: avvincente e controversa. Ha suscitato scandalo e tanto interesse in questi 170 di vita (prima esecuzione il 6 marzo 1853). Arriva a Varese con il suo carico di musica e di interrogativi.

Ha ancora senso parlare di passione e di amore, così come ci insegna la protagonista Violetta? Domanda sempre attuale se si considera che i giovani –ritenuti a torto insensibili e iper tecnologici –sono invece degli inguaribili romantici. Lo dimostra un recente sondaggio condotto da Skuola.net su un campione di 30mila ragazze e ragazzi tra i 12 e i 17 anni. La stragrande maggioranza (67%) immagina che un giorno si sposerà. Ben 7 su 10 si vedono con un figlio. Da questa indagine risulta che la generazione Zed mette al primo posto nella propria vita il sentimento più importante e immagina di avere un partner al fianco per tutta la vita.

A ulteriore riprova che l’amore per i giovani sia una cosa molto seria c’è un altro dato: 2 su 3 dicono di non essersi mai innamorati per davvero. Ma quando è successo hanno capito che quello è un sentimento importante, che non ha eguali con tutti gli altri e che non è solo un elemento teorico, raccontato nei romanzi. Piuttosto ravviva e fa rinascere una persona. Che c’entra tutto ciò con la Traviata? Semplice, spesso l’opera di Giuseppe Verdi viene catalogata come scandalosa e dovette subire pure la censura ai tempi dell’uscita. Ma sbaglia chi ne dà una lettura così bacchettona. La verità è che nella Traviata vengono a galla luci e ombre di una condizione umana che non può fare a meno –pur tra mille miserie –dei propri sentimenti. È questa componente a determinare fortune e sfortune della vita.

A permettere di toccare i vertici della felicità così come di scendere negli inferi della più totale tristezza. Cosa sarà mai questo ingrediente segreto che, come il sale, dà gusto alla vita? Chiedetelo a Violetta che, come in ogni dramma che si rispetti, muore di tisi e di troppo amore al termine dell’opera. Consumata da qualcosa che ti brucia l’anima se non riesci a gestirlo e dominarlo. L’amore è come un puledro – parafrasando Alda Merini in una delle sue poesie più belle – bello e talentuoso che, se lo lasci senza briglie, finisce per disarcionarti, per buttarti a terra, facendo sentire come è duro il suolo dove cadi. Se, invece, sai guidarlo con sapienza e moderazione ti regala i momenti più belli della vita. Ci vuole un po’ di testa per governare il cuore ma il cervello che c’entra quando di mezzo ci sono i sentimenti? Purtroppo non potete chiederlo alla protagonista della Traviata perché vi darà i consigli sbagliati. Ma sono quelli che qualsiasi persona innamorata saprebbe darvi. Qui sta il bello e il brutto di questo sentimento. Che Giuseppe Verdi ha provato a spiegare in musica. Ascoltare l’opera, perciò, è ossigeno per il nostro spirito calpestato da una società troppo materialista. Ma la migliore lezione ce la danno i giovani che, come si diceva all’inizio, credono ancora all’amore. E noi con loro. Insieme a Violetta.