IL PENSIERO DEL DIRETTORE
Si dice, e come spesso accade senza ben sapere quel che si dice, “non fare lo struzzo” quando qualcuno cerca di sfuggire alle proprie responsabilità o finge di non vedere situazioni scomode. Ma così facendo si diffama il volatile che è tutt’altro che inerme o vile. Anzi, così ci spiegano gli etologi, usa la tecnica di appiattirsi al suolo (e non di nascondere la testa sotto la sabbia…) per cercare di somigliare ad un cespuglio e quindi confondere possibili predatori in cerca di pranzo. Pronto poi a fuggire o a combattere, lui che non vola, a colpi di becco e zampate se è il caso. Dunque non stupidità ma sottile strategia. Il mio pensiero è finito qui mentre si alambicca sui modi che abbiamo e che stiamo sperimentando per far fronte alle angosce quotidiane di questi tempi complessi.
Così mi è tornato alla mente un trucco che da bambino utilizzavo in momenti per qualche verso complicati. Per esempio: improvvisa interrogazione scolastica su materia in cui non ero preparatissimo.
L’insegnante scorreva il registro alla ricerca del nome da chiamare. E a quel punto scattava la magia dell’uomo invisibile. Pensavo intensamente alla mia sparizione dalla classe o quantomeno dal radar della maestra e difatti lei chiamava Attanasio piuttosto che Pittiglio. La cosa si ripeté un numero così elevato di volte da rendermi certo di aver scoperto la formula magica per scappare dalla realtà quando questa si faceva dura. Il capolavoro dell’uomo invisibile, ahimè, un giorno si infranse contro l’inevitabile legge dei numeri. Il dito dell’insegnante si posò proprio sulla mia casella e il sogno finì, con una fitta al cuore, il gelo nella schiena e una insufficienza. Però l’idea di appiattirsi, proprio come lo struzzo fa nella spoglia savana, di non attirare l’attenzione e di scivolare via dai momenti difficili non abbandonò del tutto la mia mente. Debbo essere sincero. Da qualche parte è rimasta. E oggi penso che possa essere una strategia anche di fronte a nemici subdoli come la pandemia. Certo, con gli anni ho imparato che cosa sia il senso del dovere e della responsabilità, come sia giusto che chiunque debba essere pronto a rispondere delle proprie azioni e decisioni (e non solo chi comanda, anche se per costoro è un obbligo). E che non ci si deve nascondere o sfuggire dopo aver commesso inadempienze o errori. Ma è anche vero che una piccola magia per sopravvivere all’angoscia e superare i momenti difficili è più che lecita, anzi doverosa.
Ecco: l’astuzia dell’uomo invisibile che scivola via dalla paura, che evita di farsi catturare dal predatore di turno e si tiene pronto alla battaglia per quando potrà combatterla ad armi pari o almeno con qualche possibilità di vincere, non è poi male. Rendersi inafferrabile, non esporsi sventatamente e anzi proteggersi, non lasciarsi paralizzare dal terrore irrazionale, seguendo l’istinto di sopravvivenza, è probabilmente stata la magia più grande, il vero capolavoro della nostra specie. E, fin qui, anche la nostra salvezza.
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IL PENSIERO DEL DIRETTORE
Mesi pesanti, argomento leggero? Non proprio anche se, oppressi da tante questioni angoscianti dovremmo trovare, almeno una volta al giorno, un istante per alzare lo sguardo e puntarlo in alto e in avanti. E magari per ridere un poco, perché anche questo è essenziale nella vita quotidiana ed è bene ricordarlo sempre, persino in tempi di piombo. Comunque sia, il pensiero di oggi invita a guardarci attorno per ragionare su un fenomeno che prima o poi bisognerà indagare a fondo. E dovrebbe farlo qualcuno bravo davvero. Io, da cronista, osservo e annoto. Siamo una società che inneggia alla pace, alla fratellanza, alla comprensione per tutto e per tutti, che invoca il perdono e la bontà. E che ha fatto del cosiddetto “politicamente corretto” una nuova divinità, da difendere con aspetti a volte grotteschi. Bene. Magnifiche intenzioni. Ma come si spiega, allora, il serpeggiare di una violenza tanto subdola e vile quanto inspiegabile, condotta da guerrieri nascosti e scomposti?
Che diffonde incertezza, astio, malessere, falsità. Non intendo quella violenza che è da mettere in quota in ogni comunità di esseri umani, che è presente anche nelle civiltà più raffinate. Ovvero la violenza di chi delinque per scelta o di chi si ribella a situazioni insostenibili o di chi perde il senno. Parlo della intolleranza che si manifesta, giorno dopo giorno più forte, faziosa e aggressiva attraverso i social e con mille altri mezzi e mezzucci. Questi guerrieri senza onore né gloria sono incredibilmente in prima fila quando si tratta di riempirsi la bocca con vocaboli nobilissimi come tolleranza, eguaglianza, giustizia, libertà, diritti. Un bel rebus davvero! I soggetti, per cui è più calzante la definizione di guerriglieri, amano agire non in campo aperto, ma nell’ombra benché non ne abbiano assolutamente bisogno. Chi combatte contro un nemico assai più forte ha il diritto di agire con tecniche che gli consentano di sopravvivere e continuare la lotta. Ma il paradosso dei combattenti da computer o da lettera anonima, da bisbiglio, da calunnia è che non si trovano in minoranza, e anzi costituiscono un piccolo e tronfio esercito di maestrini astiosi, sempre pronti ad invitare al linciaggio e alla giustizia sommaria. L’ideologia, che ha perduto terreno nella storia, sembra aver trovato qui la sua ultima trincea. La forza ha una propria bellezza, quando è composta. Ma in individui pronti a colpire alle spalle per principio, a tirar sventole a casaccio pur di mettere a tacere chi non si adegua e non si accoda, ha la stessa plastica eleganza delle risse tra ubriaconi. Certo, a furia di tirar colpi di spillo o stilettate nell’ombra, l’armata dei guerriglieri scomposti si condanna a non avere futuro. Anzi, finirà per incappare in un destino che appare già scritto: l’autofagia. Ovverosia il corpo sociale, stremato dal fastidioso brusio di tanti piccoli biliosi giudici di tutto e di tutti, prima o poi li condannerà all’estinzione. Proprio come, ce lo insegna la biologia, qualsiasi cellula vivente fa per rimuovere o degradare le proprie parti che non sono più efficienti o che sono danneggiate.
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Ho nella testa l’immagine di mia nonna che, minacciandomi bonariamente con la mano aperta, mi diceva “Ciao, scrivimi!”. Lo faceva di fronte a qualche mia risibile giustificazione su qualcosa che non avevo fatto o che volevo rinviare. Riassumeva, con due parole, un concetto più ampio: “non mi imbrogli e comunque giustificarti a parole è del tutto inutile”. Nella memoria c’è anche una versione cinematografica della frase: scene di amori estivi che salutano dal finestrino del treno, rinviando l’altro a una corrispondenza che mai ci sarà. Ciò avviene mentre rifletto sull’utilità dello scrivere. Ricevo lettere di persone che sollecitano a trattare un problema che li assilla e del quale magari il giornale si è già occupato molte volte. Sento troppi sostenere che i quotidiani volutamente tacciono o minimizzano il tal o tal altro argomento, e quasi sempre si tratta di gente che non legge. E riscopro quanto sia vero il detto che non c’è nulla di più inedito di quanto è già stato pubblicato. Nell’era in cui tutti pensano di poter accedere direttamente ad un universo di lettori scrivendo due righe su un social, la situazione è paradossale. Perché proprio i maggiori fruitori dei nuovi mezzi di comunicazione sono quelli che più facilmente accusano i media tradizionali di esasperare o di mettere la sordina a qualche notizia. E poi scoprono che non bast
a scrivere quella che ritengono sia la loro verità e postarla nella loro paginetta. Perché quella cosa devi anche farla leggere e a quel punto si cozza contro il nulla. Un mondo di scriventi che non leggono è una brutta faccenda. Ancor peggio: una società in cui la comunicazione si riduce ad una battaglia per classificare come “false notizie” tutte le cose che non corrispondono al proprio credo o non vengono dalla propria fazione, ha un ben misero avvenire. Il dibattito richiede la volontà di riconoscere l’interlocutore, altrimenti si rischia di tornare al giudizio di Dio per stabilire da che parte penda la bilancia della ragione. Non bastava il caos in cui siamo immersi a causa del virus e di un’ economia in affanno, e la caduta della fiducia e della voglia di fare, ora ci si mette anche la confusione generata da una valanga di messaggi e pseudo informazioni che piovono come bombe. Vale tutto e il suo contrario. E qualcuno finisce col credere che dietro qualsiasi evento o decisione, politica o no, ci siano congiure o imbrogli. Il lavoro del giornalista è anche quello di scegliere e di controllare i fatti prima di raccontarli. Proprio attraverso la sua buonafede e la sua credibilità passa la sottile linea che divide il certificabile dalle bufale. Ma se i cittadini non leggono e non si informano, e se i cronisti si abbeverano senza senso critico al gioco del sensazionale, allora la strada è senza ritorno. A quel punto chi ama farsi gli affari propri e agire dietro le quinte, profittando del silenzio e dell’ombra, potrà sempre rivolgersi a quelli che non si informano e non leggono, salutandoli ironicamente con una frasetta: “Ciao, scrivimi!”.
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Anni fa, su una bancarella di libri usati, comperai un volume intitolato “I consigli del mago”. A una sommaria occhiata, poteva avere una cinquantina d’anni. Ma il testo, almeno dallo stile, era certamente più vecchio. Era un vero e proprio vademecum per capitoli, scritto in prima persona dal sedicente mago, rivolto a chi desiderava avere successo nella vita. Al di là di una certa ingenuità (o presunzione ) l’autore andava dritto al bersaglio di temi interessanti. Mi colpì subito la sezione dedicata agli uomini di potere. Il mago consigliava loro di guardarsi bene da un errore che segna la loro sorte. “Non ritenete amici quelli che vi lodano e non scambiate per nemici coloro che vi criticano o che non vi blandiscono” scriveva. “Si tratta di un morbo comune in chi esercita un potere – proseguiva – e la Storia dimostra che chi sale in alto cade in questa trappola. Il consenso è un’arte che si costruisce giorno dopo giorno con virtù come la pazienza, la lungimiranza, l’accortezza, la perseveranza, l’onesto e lineare agire, il carattere fermo. Chi ritiene di poter controllare tutto con la forza o circondandosi di servitori obbedienti e prezzolati non farà molta strada o dovrà percorrerla da solo allorquando, ed è inevitabile, cadrà nel dubbio che financo i suoi sodali siano doppiogiochisti pronti a tradirlo”. C’erano anche consigli per chi si sente incompreso. “Ci sono persone che ritengono di non essere mai valutate appieno per le proprie qualità. E si lamentano in bella continuazione. Così facendo finiscono per causare il plauso degli idioti e il riso dei saggi. Ma spesso le cose si invertono e non è un bene per nessuno. Se non vi riconoscono un merito non ve ne dolete. Fate un passo avanti. Ci guadagnerete in ogni caso”.
Il mago non lesinava consigli al popolo, invitando “chi non ricopre responsabilità alcuna che quella verso sé medesimo o la propria famiglia” a non cadere nei tranelli: “fatevi sempre una vostra opinione su quel che sentite, andando di persona a vedere e verificare. Quando vi parlano esageratamente bene di qualcuno tenete gli occhi aperti. Fate altrettanto che quando ve ne dicono peste e corna. Solo così potrete scegliere a chi conferire la vostra fiducia. Se non vi occupate di quel che vi circonda e lasciate che le cose accadano poi non avrete ragione di lamentarvi. Del tempo non ti metter malinconia, ma della Signoria sì, se non saprai scegliere a chi affidarti”. E aggiungeva di “rifuggire l’ignoranza come la peste, di non blandirla e di temerla più che la cattiveria, dalla quale c’è almeno difesa”. Aggiungendo “la notte porta le sue ombre e non sono pericolose. Lo sono quelle del giorno, che ci costruiamo noi da soli, con sospetti e timori insensati che guastano la vita”. C’erano anche capitoli con consigli e segreti su come aver fortuna in amore e su come aver successo nel proprio lavoro. Ma, ahimè, rimandai scioccamente la lettura. Il tempo è passato e purtroppo il libro, per quante ricerche abbia fatto, non lo ho più ritrovato. Altrimenti, i segreti, ve li avrei senza dubbio rivelati qui.
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Nel linguaggio del pugilato mettere qualcuno alle corde significa costringerlo in una posizione quasi senza scampo, praticamente senza via d’uscita. Quando un boxeur finisce con la schiena incollata alle strisce elastiche che delimitano il ring solitamente sta subendo l’avversario e raramente si sottrae al k.o. Per questo, nel linguaggio comune, essere alle corde ha un senso di resa o di fine imminente e annunciata. Però, come sempre nella vita, le cose dipendono da come le si guarda. E non c’è verdetto già scritto che non si possa ribaltare. Per questo oggi il pensiero rincorre vecchie storie di sfide sul quadrato, come esempio della capacità di sovvertire situazioni compromesse o di resistere ai momenti difficili e bui e ripartire verso la vittoria. Questione di attualità visto quello che sta accadendo a tutti noi in questi amari mesi. Siamo in qualche modo alle corde e allora è bene ricordare che c’è chi ha saputo usarle magistralmente per restare a galla e ripartire.
Tra i miei ricordi c’è un memorabile match combattuto negli anni ‘70 tra Carlos Monzon, il campione dei pesi medi argentino, l’indio indomabile che pose fine alla carriera sportiva di Nino Benvenuti, e l’americano Bennie Briscoe. Accompagnato dalla fama di invincibilità che si era conquistato in tanti scontri, Monzon trovò sulla sua strada nella difesa del titolo mondiale un combattente che non arretrava mai, capace di incassare colpi tremendi e di incalzare comunque l’avversario. Nella nona ripresa dell’incontro, con l’argentino in vantaggio ai punti, lo sfidante di Filadelfia sferrò una serie di colpi in grado di
spedire il campione, scosso e quasi incredulo, contro le corde. Sembrava fatta per l’americano ma proprio le corde, usate con sapienza da Monzon, furono la sua salvezza. Utilizzando la loro elasticità non piegò le ginocchia e anzi muovendosi da un angolo all’altro del quadrato, e usando il suo corpo come fosse un sasso tra gli elastici di una fionda, si sottrasse ad altri colpi che sarebbero stati sicuramente letali. La medesima abilità nel rimbalzare tra quelle che per altri sarebbero state delle trappole fatali la mostrò nei match con il francese Jean-Claude Bouttier e anche nell’epico scontro finale contro
Rodrigo Valdez. Quel limite dello spazio di combattimento, da tutti temuto, per Monzon era in realtà una risorsa da sfruttare in maniera diversa, non una morsa dalla quale evadere ma un aiuto per superare momenti critici.
Essendo in qualche modo il pugilato una possibile metafora della vita, il particolare tecnico ci aiuta a ricordare come si possa e si debba sempre tentare di sfruttare al meglio le opportunità a portata di mano, anche nei momenti più cupi. Spesso riteniamo limiti invalicabili quelli che non lo sono, talvolta cediamo alla tentazione di sentirci impotenti di fronte all’incalzare degli eventi. Proprio allora vale la pena di pensare che schivando, rimbalzando, muovendosi con abilità e resistendo si può tornare al centro del ring e portare a casa il risultato.
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C’è un bel quesito che gira intorno. Un domandone che tutti dovremmo farci. Per primi coloro che abbiamo delegato a guidarci, ma nessuno si può sottrarre. Senza metter mano ad alcuni fondamentali non si parte. Li abbiamo sotto gli occhi. Li hanno davanti al naso quelli che sono stati chiamati a decidere, a scegliere quale strada percorrere. Sono fondamentali su cui si basa la vita semplice, la quotidianità da cui non possiamo prescindere. Si chiamano lavoro e sicurezza. Non dipendono da ideologie o da visioni divergenti, non sono frutto di narrazioni o di percezioni. Sono questioni essenziali. I cittadini debbono sentirsi sicuri nelle proprie case e nelle strade, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma lo devono essere anche nel luogo in cui operano ogni giorno. Perché la sicurezza, per quanto è nelle possibilità umane, vuol dire non solo difesa da aggressioni e violenze, da disordini creati da facinorosi o criminali. Vuol dire viaggiare sicuri, avere un territorio che non si sgretola, ponti che non crollano, pestilenze che non dilagano. E persino fabbriche che non chiudono per motivi che non dipendono dal mercato.
E accanto alla sicurezza serve il lavoro. Perché senza la possibilità di costruire la propria indipendenza economica non c’è libertà. Non c’è futuro, e neppure una vita vera. E il lavoro non lo si crea con alchimie strane ma con l’impegno, il coraggio, il sacrificio e la creatività. Così è assurdo penalizzare proprio quelli che ci provano, a crearlo, obbligandoli a sacrifici inutili e a penalizzazioni incomprensibili. E chi il lavoro non lo ha non può essere illuso che ci siano scappatoie, furbi rimedi, sostegni a disposizione all’infinito. Un Paese serio si muove cercando di creare il lavoro, dando sostegno a chi lo offre ai concittadini, specie se giovani. E non prendendo a mani basse da chi produce per poi supportare apparati clientelari o nullafacenti. Lo Stato sociale è una cosa eccellente, ma appunto deve aiutare con forza ed equità le fragilità vere, le debolezze momentanee, i bisogni reali ed eccezionali. Il pensiero di oggi s’è aperto su un quesito. Nascosto nell’acronimo del titolo.
Quattro lettere che sono le iniziali di altrettante parole: C.S.S.S. Vale a dire: Cosa succederà senza speranza. Questo dobbiamo chiederci e chiedere ad alta voce. Se ci ritroviamo a vivere giornate fatte per arrivare a sera alla meno peggio, se tiriamo a campare quanto potremo durare? Non molto. E i dibattiti sulla sicurezza, percepita o reale, o quelli sulle ricette per creare occupazione e Pil troppo spesso sono solo surreali chiacchiere. Figlie di ideologie incancrenite. Di contrapposizioni fuori tempo e inutili. Senza la speranza di poter guadagnare e di poter costruire, ma soprattutto di poter realizzare i propri progetti nessuno scende in campo, nessuno si impegna. Si resta attoniti osservatori di un sistema che si sfalda, mentre c’è chi spera di mettere pezze a casaccio. Senza una strategia di fondo, senza progetti, senza illuminazioni. C.S.S.S. è proprio un bel quesito.
Da risolvere in fretta.
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