

Merletti, tulle, sete, garze, tele batista, rasi, nastri, fiori artificiali e pure l’organzino. Nelle sapienti mani delle modiste la materia si trasforma e tutto cambia aspetto: ora i cappelli, un tempo anche i vestiti, da signora e non. Ammodernare, cambiare radicalmente dando nuova vita, recuperare al meglio. Il miracolo dell’artigiana si compiva grazie ad una aggiunta, a un rimodellamento, a un taglio o un accorciamento. Che mestiere delizioso e dimenticato. Eppure della modista avremmo un gran bisogno oggi. Per ridare forma e sostanza a quello che è rimasto per troppo tempo negli armadi del pensiero o del cuore. Abbiamo sposato filosofie di vita, stili di comportamento, che hanno mostrato tutti i loro limiti, invecchiandoci addosso. Magari non tutto è da buttare ed ecco che servirebbe il soccorso di una mano capace di levare l’eccessivo e lo sbagliato, sostituendolo col nuovo da indossare, come fosse una cappa o un bel cappello da sfoggiare.

#Oltre n°5/2021 | L’equilibrista,l’uomo tragico e quello morale

Cioè l’equilibrio di cui siamo orfani. E che dobbiamo in ogni modo cercare e recuperare. Certo esistono periodi in cui è lo squilibrio a farla da padrone, delle intermittenze nel cammino umano. In questa epoca che possiamo definire di mancanza di bilanciamento in tutti i campi, una situazione che sconquassa il nostro sentire e altera la nostra capacità di interpretare i fatti e progettare il futuro, in cui siamo privi della necessaria serenità che è la base per costruire l’avvenire, servono assolutamente soggetti capaci di lottare per ritrovare ciò che abbiamo smarrito. Non siamo al circo, non si deve camminare sul filo del rasoio o compiere straordinarie evoluzioni. La faccenda è più complessa. L’essenziale è ricostruire una serie di regole e di comportamenti morali. Una impresa al limite dell’eroismo. Ma non di quello tragico e perdente. Bensì di quello sereno, basato sulla costanza della fatica quotidiana, sulla fantasia entusiastica e creatrice e sull’indomabile volontà.
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#Oltre n°4/2021 | La meravigliosa arte della cottura
Siete stanchi, annoiati, scocciati? Insomma siete tra i tanti che si sono stufati del tran tran quotidiano, della inconcludenza della politica, delle incognite nella gestione della pandemia? Come darvi torto? Ma la colpa, sappiatelo, è tutta della cucina. Potremmo dire della meravigliosa arte della cottura: la parola stufare, ovvero cuocere a fuoco lento, in senso figurato ha un altro significato e rimanda alla fastidiosa sensazione di fumosità provocata da qualcosa dimenticato sulla stufa. Tutto qui. Siamo circondati da cuochi mediocri. Stufare, brasare, cuocere a vapore, a bagnomaria, a fuoco vivo, lessare, bollire. Guarda un po’, a scorrere il ricettario ci si imbatte in quello che fanno a noi, al nostro morale, alla nostra triste quotidianità, quasi che fossimo bistecche o spezzatini. Prede di voraci mangiatori incapaci. Siamo assediati da presunti chef, maestri di padella, inadatti a prepararci una zuppa mangiabile. Ma pieni di pretese, supponenza, superficialità. Ai fornelli sono io – sembrano dire – e qui sono un dio! Mangiare sta minestra o saltar dalla finestra. Corre il pensiero tra taglieri e casseruole e inciampa nel colabrodo. Non più prezioso strumento per filtrare il buono dagli scarti ma sinonimo di buchi nell’acqua e fallimenti ripetuti. C’è da perdersi in cucina, tra similitudini e parallelismi. Ecco anche i cuochi si sono persi e la minestra è salata, immangiabile. Che fare? Non sedere a tavola? Mangiare comunque la sbobba? O ricorrere al vecchio e saggio consiglio culinario delle nonne? A quel “lasa bui” lascia bollire, che con diverse grafie si declina più o meno ovunque sopra il Po. Lascia bollire, lascia cuocere. Ottima raccomandazione per piatti prelibati ma anche sublime ammaestramento di vita: lasciar perdere, soprassedere, non intromettersi nei fatti altrui. Ma anche “lascia fare” augurando, di sottecchi, che sia il buon destino a vendicarci dei torti subiti. Certo si potrebbe cambiare ristorante. Ma ne siamo capaci come singoli e soprattutto come popolo? Oppure quel che passa la mensa alla fine ci sta bene? Anche questo è tema da chiarire. Perché lamentarsi e però continuare a pagare il conto sottende una forma di accettazione se non di complicità. Dicono che più una civiltà si avvicina alla sua fine più la sua cucina diviene leziosa e pretenziosa. Siccome viviamo da tempo in un continuo reality dove l’arte culinaria è materia d’elezione, un brivido mi corre lungo la schiena. Forse ci siamo abituati ai piatti troppo speziati? Siamo così viziati che manca perfino la forza di cambiare? Siamo bolliti, nel senso di assolutamente incapaci di far guizzare i muscoli e il cervello che sono divenuti tenerelli; di dare quel colpo d’ala che serve a staccarsi dal fango? Dobbiamo lasciar bollire e attendere pazientemente che la storia compia il suo corso? Trangugiare quel che passa il menù di giornata? O ricominciare a pensare e cambiare ricettario. Partendo da un semplice e gustosissimo panino con burro, acciughe, responsabilità e libertà.
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#Oltre n°3/2021 | Cambiamenti? Si ricomincia così!
Sei stanco dell’andazzo delle cose? Ti annoia a morte quello che accade intorno a te? Non vedi una via d’uscita? Cambia! L’appello è rivolto ai politici che hanno nelle mani il nostro futuro comune ma anche a tutti noi cittadini che stiamo lì a guardare. Magari lamentandoci e sbuffando, i più. Ma anche ripetendo a vanvera le vuote frasi che troppi professionisti della politica sfornano a raffica. Dici che sono finite le ideologie? Si, forse. Intanto spopola quella nuova “fai da te”. Ne sono pieni i social dei politici e dei loro emuli e sostenitori. Un bel mandarsi al diavolo e infilarsi le dita negli occhi in beata continuità. Sfogatoio a buon mercato per mitomani, instabili, carognette, inviperiti e perdenti vari. Palcoscenico da avanspettacolo per chi si ritiene maestro di vita, genio incompreso, sublime pensatore maltrattato dalla vita. La ricetta è semplice: si prende una materia di cui si ignorano perfino le basi (politica compresa), ci si documenta superficialmente e a casaccio, si copia e incolla, si aggiunge un pizzico di furbizia “non sono il tipo a cui la si fa” e lo si condisce con una bella grattata di sana arroganza e sicumera. Il piatto è pronto! Lo cucinano e lo mangiano troppi eletti e troppi elettori. Io ho rispetto per quelli che ancora trovano interessanti e degni di analisi e commento i contorcimenti della nostra politica, ma anche di quella oltreconfine, e i finti cambiamenti. Però non provo il loro entusiasmo. Che credo sia finto o da disperazione. Perché siamo di fronte a falsi movimenti. Non c’è né una meta né una strategia dietro gli annunci. Non c’è il pensiero. Ecco: il cambiamento è necessario, sempre nella vita. Ma se adesso ci voltiamo indietro ci accorgiamo che il tempo ci è scappato via senza lasciare pressoché nulla di buono. E se è vero che non possiamo determinare il corso del tempo potremmo almeno imparare di nuovo a viverlo e a riempirlo. Non dobbiamo cadere nella trappola di chi invoca il cambiamento ma non lo mette in pratica. Di chi ritiene di poter fossilizzare tutto, di cristallizzare quel che gli conviene. La rivoluzione deve cominciare dal nostro pianerottolo. Deve uscire da quelle stanze in cui ci sentiamo rinchiusi ma al sicuro. Non è così. Non ci serve sfogarci a chiacchiere o pensare di capovolgere il mondo con un tweet o una battutaccia. La metamorfosi richiede impegno, costanza e tempo. Disciplina personale e sacrifici. Coraggio e testimonianza. Il consenso si costruisce e si concede giorno dopo giorno, non con una studiata campagna buona per un detersivo. A noi cittadini spetta il compito, non facile, di smetterla di invocare serietà e onestà e non praticarle in proprio. Di fare la fatica di scegliere. Di avere memoria dei fatti e di non farci distrarre o comperare dai suonatori di piffero. E soprattutto di non partecipare alla stupida lotteria del “mi piace”. Cambiare è una sommatoria di mutazioni, necessarie a diventare finalmente un popolo conscio dei propri valori condivisi e dei propri doveri e diritti.
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#Oltre n°2/2021 | Due minuti di felicità
Certo, forse sarebbe più saggio parlare di grandi temi, di tante cose serie, dei mille problemi quotidiani. Cosa che peraltro viene fatta tutti i giorni a tutte le ore da tutti i mezzi di comunicazione, quelli tradizionali e quelli più moderni. Forse persino troppo, e con che risultato non saprei. Così non è certo un grosso danno se qui ci occupiamo di pensieri leggeri, di cose all’apparenza superficiali ma che sono in realtà essenziali. Per esempio potremmo ragionare dell’eroe del giorno. Chi può essere? No, il vostro sguardo non si fissi di botto sui tanti, benemeriti e benedetti, che fanno il loro dovere e anche di più per cavarci dai guai e perché una società zoppicante resti comunque in piedi. O su quelli che, tra indifferenza e ostacoli, si battono onestamente e seriamente per superare i drammi che stiamo vivendo o per lenire i dolori e cercare soluzioni, nonostante tutto. L’eroe a cui penso è quello che ti dona due minuti di felicità. Che sarebbe poi null’altro che la dose quotidiana, minima e indispensabile, per tirare sera senza che il peso sul cuore diventi intollerabile. Eccolo il protagonista da acclamare: quello che ti strappa un sorriso o che anche, semplicemente, ti sorride. Mascherina permettendo, magari con gli occhi. Quello che ti distrae, non con mezzi subdoli o fanfaluche, ma con una sorprendente e gratuita gentilezza, un gesto inatteso, una parola consolante. O perfino con una buffonata di quelle vere e autentiche, da piegarsi in due per le risate. Non certo le ormai noiose e ripetitive scenette da social, spesso piene di amarezza, sarcasmo e veleni. Già perché prima c’erano le barzellette, e però bisognava saperle raccontare, chiedevano un minimo di perizia e di stile (anche se ho memoria di pessimi raccontatori che, proprio per la manifesta incapacità e la goffaggine, strappavano più risate di quelli bravi). Adesso si schiaccia un pulsantino e si diffonde la battutina o la vignetta urbi et orbi. Vabbè. Torniamo all’eroe della quotidianità. Non è legato ad ideologie o a bandiere, non è spinto da brama di gloria o da spirito di sacrificio. Non ambisce a medaglie e non sogna di passare alla storia. Semplicemente vive. E per vivere, e aiutare a vivere, bisogna ridere e sorridere. Se qualcuno dice che se ne può fare a meno sbaglia. Perché perfino se si è misantropi assoluti, e si vive sperduti in un deserto, si può sempre ridere. Magari di se stessi e dei propri errori, debolezze e fallimenti. Che è un gran bell’esercizio, salutare. Per caratteri forti, per gente tosta che sa stare al complicato gioco del mondo. Chi dona due minuti di felicità, o almeno di serenità, aiuta l’universo a cercare un equilibrio. Che si può raggiungere solo se il numero dei sorrisi supera quello dei ghigni. Se intorno a noi non vediamo solo nemici, ombre e tranelli. Se la spensieratezza, che in giuste dosi è un tonico eccezionale per il cervello e per il morale, riesce a far compagnia all’impegno e alla serietà. Almeno per qualche istante nelle nostre giornate.
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#Oltre n°41 | Piccolo manuale di bricolage

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