IL PENSIERO DEL DIRETTORE
Il pensiero, facile dirlo, il pensiero. E se ti salta in mente all’improvviso, ti prende alle spalle, come un sogno che svanisce al risveglio e non riesci più a ricostruirlo, lasciandoti in bocca un senso di incompiuto? Un bel problema il pensiero, da prendere con le molle. Poi, questa cosa che mi è venuta in mente sarà davvero mia? O non la avrò sentita, chissà dove e chissà quando, e di colpo salta fuori, come lo zampillo dell’acqua da un tubo rotto. Martellante questa idea, ma sarà la mia, la tua, la sua o di chi? Lo avete provato, vero, quel tarlo ossessivo, ripetitivo? Brutto cliente. E che dire del pensiero fisso? Come quelli di questi mesi, settimane, giorni. Eh sì, davvero un cliente difficile. Ho un pensiero, dice. Ma cosa vorrà mai dire, che ne ha davvero uno soltanto (capita, eccome se capita), oppure che ha una angoscia, un dolorino continuo e perfido? Il mio pensiero, il tuo, il suo. Si incrociano, combattono, si integrano, si fanno compagnia. Di certo non dialogano, ognuno chiuso nei pensieri suoi. Ho suggerito di portarli altrove, di posticiparli, i gravosi pensieri di questo tempo faticoso e di lotta. Chissà se è un buon pensiero o una sciocchezza? Ci ragiono su, non ci dormo su, mi ci arrovello, ci ritorno su. Non ho le risposte per tutto, eppure ogni giorno incontri gente che le ha in saccoccia e le declama. Beati loro. Pensierini pronti all’uso, così non si danno pensiero, non si dannano l’anima, non si arrovellano. Pochi pensieri vita beata. Anche se a volte, temo, beota. Perché ditemi voi: certo che è bella la spensieratezza, volatile e allegra. Ma vuoi mettere le soddisfazioni che può darti quel giocattolino splendido e delicato che sta nella tua testa? Da tenere a bada o da lasciar scorrazzare, vedete voi, ma stupendo. Non mi sfiora, il pensiero, fa sempre centro, se vuole. E mi riempie di dubbi. Ma senza quelli che vita sarebbe? Nel bene e nel male. Dunque, mentre ci penso su, ci ricamo sopra, perfino ci sragiono, ci guardo dentro e sopra e sotto, mi accorgo che sarebbe forse meglio dormirci su e lasciare che la nostra mentre ci si perda. Di solito ne nascono idee, emozioni, sensazioni. Che aiutano, eccome, nella quotidianità. Se un pensiero è buono alla lunga diventa di tutti, patrimonio comune, come l’erba dei prati non coltivati. Qualcuno sosteneva che i pensieri li mandassero gli Dei, a noi mortali. Altri che sono semplicemente una reazione biochimica, un impulso elettrico. C’è chi sostiene che il proprio è il migliore. C’è chi lo ruba e chi lo impone. Chi non ci pensa troppo e chi ci rimugina. Fatto della stessa materia dei sogni ha diversi difetti e tante meraviglie da svelare, specialmente quando si sa materializzare. Ci faccio un pensierino; le mando un piccolo pensiero; scusi è solo un pensierino, avrei dovuto fare di più. L’importante, anzi il fondamento, è che il pensiero non sia mai unico. Perché sennò è più tossico del cianuro. Per questo ogni tanto bisogna cambiarlo e scambiarlo. Per non adagiarsi. Per dare aria e scoprire panorami e prospettive nuove.
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IL PENSIERO DEL DIRETTORE
Nel secondo anno della Pandemia, mentre pur tra mille precauzioni e scongiuri fa capolino la speranza che anche questa all’improvviso finirà come quelle del passato, dobbiamo spostare il nostro pensiero dall’oggi a data da destinarsi. Comunque sia c’è un futuro in attesa, ed è come una nuova casa da dipingere e da arredare secondo il nostro gusto. Quale sarà il colore della nostra stanza, un bel violetto o il verde speranza? Il soggiorno avrà una parete di ricordi e una di progetti? E gli armadi, saranno pieni solo di vecchie cianfrusaglie? Ecco ciò a cui dobbiamo pensare. Traslocare. Portare mente ed energie oltre lo steccato in cui ci stiamo abituando ad alloggiare. C’è un oltre, ci sono giorni nuovi, c’è un tempo da conquistare, esplorare, godere. Ognuno del proprio tempo fa quel che vuole, ma deve poterlo decidere, il da farsi. Magari sprecarlo, perderlo, regalarlo, lasciarlo scorrere, concentrarlo, riempirlo. Ma per libera scelta e convinzione. Non per costrizione. Stando attenti ad un particolare: se i nostri tempi non coincidono con quanto si muove attorno non ce ne dobbiamo troppo lagnare. Lo dobbiamo accettare, farcene una ragione. La concentrazione sul presente è un bel modo di lavorare, le distrazioni a volte sono così perniciose e talvolta letali. Ma dobbiamo sempre trovare il tempo per spostare il nostro pensiero dal contingente al possibile. Creare i presupposti, immaginare, intessere reti e fili invisibili guardando all’avvenire. Lasciando il lasciabile per abbracciare il realizzabile. Se la mente è libera fluisce superando gli ostacoli. Pensate alla corrente di un torrentello, non bastano i sassi a trattenerla, l’acqua li scavalca, li aggira, procede nel suo cammino e viaggia verso la propria meta. In questo caso stabilita dal suo destino, ovverosia dalla inclinazione del terreno e dalla forza di attrazione che sia del lago o del grande oceano. Il bambino che crea una paratia di pietre per bloccare la corrente scopre presto che la sua è fatica vana, ci vuol ben altro per fermare il flusso. Così la nostra mente non si deve impantanare, non può stagnare, deve trovare la via di uscita, la scappatoia, il pertugio. Filare via dal male, dall’attaccamento insulso, dal permanere invano nell’apatia e nell’angoscia. Non è filosofia, piuttosto fisica. Fisicità e potenza, liberatorie e combattive. Altro non serve, davvero, per scappare via dagli orizzonti bassi e plumbei. La mente, il pensiero, l’idea, il sogno, la volontà creatrice, per quanto piccola e fragile sia. Sono le risorse che dobbiamo liberare da consuetudini e paure, da convenienze e dubbi. Le dobbiamo scatenare, impiegare a piene mani e senza riserve. Viviamo il momento, certo, non scappiamo, assaporiamone anche il gusto amaro. Ma ogni tanto alziamo la testa, pur nella fatica e nella lotta, prendiamo fiato e pensiamo al dopo. E mentre lo immaginiamo, mentre prende forma nella nostra testa, il futuro si configura e si materializza. Traslochiamo. Sarebbe davvero un peccato arrivare nel palazzo che ci attende senza averlo sognato.
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Senza alcuna pretesa di completezza, di oggettività o di serietà e declinando ogni e qualsiasi responsabilità per eventuali danni derivanti da scelte che sono e saranno sempre ed esclusivamente a carico del lettore, mi accingo a stilare quell’elenco essenziale e utilissimo che ognuno di noi, sin dall’età della ragione, ha sognato di poter avere tra le mani. Una cosuccia, ma utilissima per affrontare le evenienze della vita, i rovesci della sorte, le incognite quotidiane, gli amletici dubbi che ci attanagliano. Specie sul far della sera ma anche appena svegli, magari dopo una notte tribolata. Non è un catalogo dei sogni o un elenco di consigli appropriati ad ogni evenienza, neppure una enciclopedia gonfia di attualità scientifiche o storiche. Non un prontuario ad uso di chi ama viaggiare, fosse anche solo nel perimetro della sua stanza, o esplorare le incognite dell’universo. Tantomeno un dizionario ragionato della sapienza o una elencazione pedissequa degli infiniti maestri. Non si tratta neppure di un manualetto per trarsi d’impaccio di fronte alle complicazioni che scienza e tecnica hanno apportato alla nostra esistenza, peraltro con il dichiarato scopo di renderla più rilassante e meno faticosa. E non siamo nemmeno in presenza di un dotto abbecedario di suggerimenti spirituali o religiosi. Così come è da escludersi nella maniera più assoluta che, tra le righe, si possano celare frasi di circostanza o aforismi buoni a risollevare la giornata più grigia o a rimettere in carreggiata dopo una delusione d’amore. Non un bigino di nozioni indispensabili per affrontare gli esami, che mai hanno fine, e non un prontuario per fini dicitori, per polemisti accesi, per politici disillusi e innovativi. Non una carta di servizi cui abbeverarsi e nemmeno un prezioso documento identitario, con tanto di postille e note a piè di pagina. Sicuramente escludo che si possa definire un baedeker per aggirarsi in tutta tranquillità tra le nostre confuse strade e nelle ahimè troppo uguali e senz’anima città. Cari signori qui siamo dinnanzi all’opera più esaustiva, stante la sua incredibile brevità e compattezza, mai realizzata nella storia della cultura e oso dire della civiltà umana. Non un compendio, non una sfilata di fatti, misfatti e neppure di date e dati, non una colata di saperi spiattellati. Non ci sono ricette, o ingredienti o dosaggi, manco motti dei saggi. Tempi di cottura, rimedi lapalissiani, giochi di mani, invenzioni sottili o fraseggi gentili ad uso innamorati. No, no, no. Cose da sapere è un’opera, mi sia consentito dirlo, davvero geniale. Indispensabile e attuale. Fattuale, documentale, testuale e via, l’affermo senza un filo di ambascia, multimediale e ipertestuale. E dopo tanta attesa, finalmente è arrivato sui nostri banchi, sulle scrivanie, sul comodino, sul divano o dove più vi aggrada. Eccolo lì, pronto alla compagnia, al sostegno, ad aiutar l’impegno di giorni svagati, talvolta angosciati. Giunto è il momento, l’attimo fatale, il minuto cruciale. Le cose da sapere? Meglio se me le dici tu. Che di certo ne sai molto di più
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Ah bella scoperta! Non lo dico per dire e il pensiero mi tormenta. Ci hanno ingannato, fin dal principio, ci sarebbe dovuto saltare subito agli occhi. E invece ci siamo cascati. Ci hanno detto che la persona più importante dell’Universo siamo noi stessi. Il bello è che ci abbiamo creduto e continuiamo a crederci. Ci hanno raccontato di un progresso inarrestabile e costante; di un lavoro che si fa senza fatica; della possibilità di guadagnare tutti e tanto, senza limite e di spendere altrettanto. Ci hanno insinuato che tutto ci è dovuto, perché ce lo meritiamo. Quasi fosse un diritto naturale, inalienabile. Ci hanno raccontato che la vita può essere facilitata, ah bella trovata, che è buona cosa stare sempre in vacanza e che è cultura anche andare ad osservare, da vicino, quelli che lavorano tutto il giorno per un panino. Ora di bugie se ne dicono tante e se ne spacciano per verità conclamate da che il mondo è nato. Adesso ci narreranno, ormai la moda vuole così, tante cose strane e tra un po’ ci faranno sapere che Atlantide esiste e la si potrà visitare su un sommergibile a forma di salame. Ci serve una nuova America, tutta da scoprire? Oppure come ci hanno spifferato il nuovo Continente sta già qui? A dir la verità di scoperte ne dobbiamo fare, e tante. A partire dall’abbandono di un egocentrismo divenuto così imperioso da rasentare la patologia. E tante altre cose dovremmo abbandonare, come vecchi stracci, e tante invece riscoprire e nuovamente indossare. Quel che la sorte ci ha apparecchiato, questa spinosa pandemia, ci pone di fronte ad una sfida che non è minore dell’andar per mare a esplorare. Punge, fa anche sanguinare e fa soffrire, ma non è detto che alla fine del gambo non spunti una rosa. Il cambiamento, sia quello generale sia quello individuale, richiede sacrificio, rinuncia, impegno e volontà. Voglia di fare, di osare, di rischiare. Col rischio di fallire, di perdere tutto, è cosa nota. Però non c’è castello che non sia andato in rovina, non c’è fortificazione che abbia protetto in eterno i confini. Perché noi siamo fatti più per la tenda del nomade che per il palazzo. Ospiti di questo mondo possiamo percorrerlo in lungo e in largo solo spinti dalla voglia di conoscere, di agire e di inventare. Le civiltà scompaiono, e le loro città crollano e finiscono sotto la sabbia, non tanto quando perdono guerre e sono aggredite dalle pandemie, ma quando la spinta vitale si esaurisce e si estingue il desiderio di futuro. Rannicchiati sul presente, chiusi sulla difensiva si può restare per periodi brevi. Poi serve muoversi, partire, osare. Se pensiamo che l’universo faccia tappa sul nostro ombelico non abbiamo capito la lezione di chi ci ha preceduto e, sulle cui spalle, siamo arrivati fin qui. Tra errori, orrori e meraviglie il cammino non si è mai fermato. Talvolta ha rallentato. Però indietro non si torna. La nuova America chissà se c’è, chissà dov’è. Ma per scoprirla serve partire subito. Adesso. Senza domande e perfino senza un perché.
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Stanchi di aspettare che le cose cambiassero, un bel giorno un gruppo di cittadini di una nazione che aveva alle spalle una storia millenaria e ricchissima, decise di attuare la rivoluzione. Non scendendo per la strada o impugnando forconi e neppure erigendo barricate o incrociando le braccia. Scelsero di non attendere oltre e la fecero istantanea, quasi come il granulato per brodo che si mette nell’acqua bollente e voilà, il piatto è servito. Ora vi state chiedendo come sia possibile fare una rivoluzione istantanea, con quali mezzi e soprattutto con quali risultati? Eccovi accontentati: si tratta di uno sconvolgimento che nell’immediato non sembra smuovere minimamente le acque, insomma l’effetto è inferiore a quello di una leggerissima brezza sulla piatta superficie di un lago. Passando alla parte pratica si tratta di agire contro natura, ovvero esattamente al contrario del modo che per troppo tempo è stato considerato il più giusto e naturale. Bisogna cioè compiere azioni che sfuggono al profitto, immediato o no. Normalmente si ritiene che il do ut des sia un imperativo irrinunciabile. I rivoluzionari della nostra storia invece, appena possibile, agivano senza scopo di guadagno o di riconoscenza. Se puoi fare un gesto di liberalità fallo e non temere di perderci, fu lo slogan. Prima della rivoluzione, in quel tal Paese, ci si riempiva la bocca di parole come solidarietà, diritti ed eguaglianza. Tuttavia, per una strana distorsione del pensiero, si erano create fazioni contrapposte tra chi le interpretava come una vera e propria professione, e dunque a bene vedere a scopo di lucro, e chi invece le avversava come un subdolo trucco per far prevalere la parte che puntava a sovvertire il sistema sociale consolidato. La gentilezza senza richiesta di contraccambio; la volontà di aiutare nei limiti del possibile senza volere ricompensa; il desiderio di svolgere fino in fondo il proprio compito o il proprio dovere senza avanzare pretese o lamentele furono i primi segni che misero in allerta gli occhiuti custodi dello status quo. Per loro era intollerabile che qualcuno andasse contro le regole dell’economia pretendendo la libertà di fare senza guadagnare o lucrare. E dove si andrà mai a finire, si chiedevano, se, per fare un esempio, coloro che detengono una piccola leva di potere non la esercitano per trarne un anche minimo vantaggio, fosse solo quello di guardare dall’alto al basso chi dipende dalle loro bizze? Burocrati efficienti, sgobboni e ligi; servitori dello Stato impeccabili e protettivi come incorruttibili samurai; banchieri propensi a sostenere i volenterosi dando loro credito e via via tutte le categorie pubbliche e private indirizzate su una china del genere sarebbero state davvero uno sconvolgimento intollerabile. Da allora il tempo è passato ma, ogni tanto, così ho saputo, sulla superficie del lago si notano delle onde sebbene non tiri un filo di vento. Del resto, la storia lo insegna, le rivoluzioni, anche quelle istantanee, non sono proprio veloci come il brodo. Richiedono tempo e pazienza. Ma vanno a segno.
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Tanti sono i tipi di esseri umani, altrettanti sono i modelli di eroismo (o, per contro, di viltà). Ce ne sono per tutti i gusti e le esigenze. Perché il sostantivo eroe è probabilmente tra quelli che più spesso vengono usati a sproposito, o meglio in modo iperbolico. Ci sono tante storie, qualcuna verissima, altre verosimili, poi ci sono quelle esagerate e quelle inventate di sana pianta, per pura propaganda. E c’è l’eroe di parte e l’antieroe. Roba da perderci la testa. C’è una storia stupenda e vera, bell’e pronta per diventare un film che non mi risulta sia mai stato girato. Con il giusto pizzico di romanticismo. Narra del comandante di un sommergibile austriaco durante la prima guerra mondiale. Il suo nome era Egon Lerch. Abile marinaio in carriera, spericolato e, dicono, bello ed elegante. Si innamora, ricambiato, della nipote più cara dell’Imperatore. Che è però già sposata con un aristocratico. Lui non è nobile, limite tremendo all’epoca, però se gli riuscisse, con una impresa eroica, di guadagnare l’ordine di Maria Teresa, la più importante onorificenza della corona Asburgica, avrebbe oltre agli onori una patente di nobiltà che gli faciliterebbe il raggiungimento del sogno. Così fa di tutto col suo sottomarino, che si chiamava U-12. Fino a tentare l’impresa più ambiziosa: entrare nel porto di Venezia, seguendo la scia di una cannoniera italiana e silurare le navi nemiche. Ma così facendo si infila in un campo minato. Fine della storia. Con Lerch muoiono anche gli uomini del suo equipaggio, tutti poi celebrati come eroi. Certo si era in guerra e il rischio è sempre lì, dietro ogni angolo, in ogni istante. Ma quanto ha contato l’ansia di un singolo a caccia di eroismo sulla sorte di tanti che volevano solo tornare un giorno a casa? E per restare nel campo militare c’è la storia della grande guida alpina Sepp Innerkofler, che viveva facendo l’albergatore e portando sulle cime più belle delle Dolomiti escursionisti di tutta Europa. Nel ‘15 scoppia la guerra con l’Italia e lui, il più esperto, viene reclutato come guida militare per difendere la sua terra. Subito avvisa il comando: bisogna presidiare quella cima (il monte Paterno) perché è essenziale per la difesa. Ma i generali la pensano diversamente. Passa qualche settimana e la vetta finisce in mano italiana. Ed è una spina nel fianco che mette a rischio la tenuta del fronte alpino. Così si chiede al vecchio Sepp di salire sulla montagna e riconquistarla. Impresa disperata. Eppure lui, per senso del dovere sale, combatte e muore. Gli italiani, che ben lo conoscevano, recupereranno il suo corpo tributandogli tutti gli onori. Altro tipo di eroismo. Ogni giorno, nelle battaglie della vita, spuntano degli eroi. Inutile dare giudizi o stendere la lista dei buoni e dei cattivi. Però il pensiero questa settimana omaggia quelli che agiscono non per interesse o perché costretti dagli eventi ma per senso del dovere, amore verso il prossimo, solidarietà o anche voglia di dare gioia e sollievo. Perché quasi sempre le loro storie restano senza targhe e senza medaglie.
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