#Oltre n°30/2021 | Credere o no al calamaro gigante?

#Oltre n°30/2021 | Credere o no al calamaro gigante?

L’idea che esista qualcosa e/o qualcuno oltre tutto ciò che si vede e tutti coloro che si vedono è grande come un calamaro gigante. Una prova, questa però piccola in quanto personalissima, l’ho colta nelle letture estive tra carta e web. Stavo infatti leggendo il libro di Fabio Genevosi, Il calamaro gigante, appunto – molto ben scritto e argomentato e raccontato – quando compulsando Twitter, il social network più amato dai giornalisti, ho notato una notizia segnalata da Gianni Riotta, già direttore del Tg1 e del Sole 24 Ore e oggi editorialista di Repubblica, Stampa e Huffington Post, oltre che direttore della Scuola di giornalismo della Luiss di Roma. Insomma, fa tante cose Riotta, ma trova anche il tempo di twittare notizie clamorose come questa: «This is a 393-years old Greenland Shark that was located in the Arctic Ocean.». Uno squalo di quasi 400 anni, con tanto di foto, ma com’è possibile? E infatti titola UsaToday: Fact check: «Claim that a viral image shows a 392-year-old shark is unverified», annuncio non verificato. È proprio come il calamaro gigante, quasi 15 metri di tentacoli e c’è chi dice di più; qualcuno l’ha visto, qualcuno l’ha disegnato, qualcuno l’ha raccontato a qualcuno che l’ha raccontato a qualcun altro, fino al libro di Fabio Genovesi, che è un romanzo non romanzo e contemporaneamente un saggio non saggio. Ma soltanto ciò che è verificato esiste? Naturalmente no, sia per ragioni di spazio conosciuto, leggendo Genovesi si capisce quanto è profondo il mare, come cantava il maestro Lucio Dalla, e pure quanto poco conosciamo delle acque del pianeta terra. Ma anche temporale: il futuro non è verificato, ma prima o poi esisterà. Chi avrebbe mai pensato potesse accadere una pandemia così globale e così pericolosa da chiudere tutto il mondo globalizzato in una casa o nascosto da una mascherina, prima di questi mesi? C’è dunque un problema che dobbiamo trasformare, come sempre, in opportunità. Il problema: non possiamo e non siamo ovviamente in grado di verificare tutto. L’opportunità: abbiamo uno straordinario strumento di ampliamento delle nostre capacità di verifica, cioè la fiducia negli altri, per chi crede si attaglia meglio la parola “fede”. Se mia moglie o mio marito mi dice che sta arrivando una macchina da destra, anche se io non la vedo, mi fido e allo stop non riparto. Se un medico mi dice che per questa malattia c’è questa cura o per questo virus c’è questo vaccino, mi fido e la seguo e lo faccio, anche se non ho verificato tutto in prima persona. E qui si aprirebbe un tema tanto bello quanto impegnativo sul rapporto tra fede e scienza, quando invece l’interrogativo estivo è molto più terra terra, anzi mare mare: credo più al calamaro gigante o allo squalo attempato?

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#Oltre n°29/2021 | “Quell’Internet” ci ha proprio cambiato la vita

L’idea che Internet sia già oggetto di film generazionali sul modello revival, e per di più trasmessi come serie televisive ma su una piattaforma di streaming online come Netflix, è una prova del come non sia e non sia stata «una moda passeggera» quella del web.

Ma ve li ricordate i rumori del modem che bloccava la linea e faceva esplodere la bolletta, telefonica l’una e l’altra? Era l’era prima del flat… Ve la ricordate la lentezza con cui si aprivano le pagine una volta digitato il soggetto della ricerca e cliccato il blu? E i floppy disk? Ve la ricordate la prima volta che avete navigato?

È talmente tanto tempo fa che non si usa più nemmeno il termine “navigare” riferito ad andare su Internet. Ve li ricordate quelli che dicevano “l’Internet”? È talmente tanto tempo fa che non esistono più i motori di ricerca di allora, tutti fagocitati dal successo globale del signor G., mister Google. Vi ricordate quando i vostri figli occupavano per ore la linea telefonica? E ve lo ricordate il vostro primo amore non corrisposto? E il vostro primo spasimante o la vostra prima spasimante, quello o quella che voi non avete capito che lo era? Vi ricordate quando per la prima volta vostra figlia vi ha detto «ho conosciuto un tizio online»? Ve lo ricordate dove siete cresciuti? Ve le ricordate le pettinature assurde di mamma e papà (o le vostre)? Vi ricordate i vostri primi carissimi compagni, sodali, cugini anche senza esserlo, quelli delle bischerate, come in Amici miei, ma molto più piccoli? Ve lo ricordate il rapporto di amore, odio e spionaggi annessi con le vostre sorelle e/o i vostri fratelli? Vi ricordate le vostre prove tecniche di bacio allo specchio? E ve la ricordate la Smorfia, la compagine teatral-cinematografica di Massimo Troisi, Lello Arena ed Enzo Decaro?

Vi ricordate la paura dell’amico-nemico bullo che quando passa sulla strada del paese tu guardi altrove o entri nel tabaccaio-bar dell’amico di babbo per nasconderti? Ve la ricordate la scatola o la bottiglia o il diario dei segreti, dei desideri inconfessabili, delle cotte che quando lei è vicina tu non riesci quasi a respirare e la pelle te la senti bollente, rosso Coca Cola, come recita Oriettona Berti nazionale nella canzone “Mille” con il duo impensabile Fedez-Lauro? Se avete voglia di ricordarvi tutto ciò e molto altro di quando l’estate era il momento più bello della vita perché bastava uno zoccolo e un pantaloncino e con gli amici si andava a conquistare il nostro piccolo mondo moderno, beh, se avete voglia di questi e simili ricordi, tra un sorriso tenero e una lacrima di nostalgica riconoscenza, potete guardare Generazione 56K. Ci sono i The Jackal, che sono la nuova Smorfia, ma ci siamo tutti noi e quella moda così passeggera da essere ancora qui e ancora per un bel po’ di tempo. Buon modem e buona estate.

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#Oltre n°28/2021 | Lo sport, la più grande macchina dei sogni

L’idea che lo sport sia parte della nostra vita da subito e da sempre è dimostrata dal fatto che la prima cosa che i bambini fanno in autonomia dai genitori, a parte tutto ciò che serve alla sopravvivenza, è mettersi a correre. Peraltro questa è anche la prima forma di ribellione, perfino in chi non è certo detto finisca a sfasciare una racchetta urlando “You cannot be serious” all’arbitro di sedia, come un artista alla John McEnroe. Si potrebbe dire che la prima istanza di rivolta adolescenziale incominci laddove il passo da infermo e caracollante diventa spedito e rapido, laddove comincia lo sport. E poi la prima cosa che i bambini imparano, a parte tutto ciò che serve alla sopravvivenza, è ad andare in bicicletta, prima con e poi senza le rotelle. Qualcuno perfino le salta, le rotelle. E poi la prima cosa che i bambini prendono a calci è una palla, ben prima del tran tran quotidiano o di una bottiglietta d’acqua a bordo campo in un gesto di stizza. E ancora, la prima volta in acqua, e la prima volta sulla neve e la prima volta con un arco in mano, ma quest’ultima sarebbe una storia troppo personale. Lo sport è di tutti per questa ragione: è nella nostra natura, nella nostra crescita individuale, dalle prime corse lontano da mamma e papà al primo divano a saperne di più, ma molto di più, dello sventurato commissario tecnico della Nazionale, che poi è soltanto uno, e nemmeno il più preparato, ovviamente, tra i sessanta milioni di commissari tecnici italiani.

Lo sport è la nostra vita parallela, lo specchio con il corpo che vorremmo avere, il podio su cui vorremmo salire, i record che vorremmo stabilire. Se è di squadra, è l’apice del nostro naturale senso di appartenenza, spirito di accettazione, desiderio di comune sorti e comuni sforzi, di comunità. Se è individuale, è l’apice del nostro naturale sogno di realizzazione singolare, istinto di competizione, voglia di affermazione identitaria e personale, di cittadinanza. Con lo sport passiamo i nostri momenti più intimi, se ci pensate. Nello sport, magari racchetta alla mano, facciamo i nostri più lunghi dialoghi con noi stessi. Dopo lo sport proviamo le stanchezze più piacevoli, il calore di un gesto gratuito per sé. Che poi il bello è che da prima forma di ribellione – l’elenco degli sportivi ribelli (anche non campioni) sarebbe lunghissimo – diventa sempre anche prima la forma di regola che accetti abbastanza sereno: il fallo fischiato, la dieta da seguire, il mister che ti fa uscire o ti fa entrare. Lo sport è l’unica metafora della vita che accettiamo con naturalezza, senza cavillare, senza snobismi letterari. Per questo un evento come le Olimpiadi è davvero e sempre così dannatamente letterario, perché è mito e vita reale senza soluzione di continuità.

 

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#Oltre n°27/2021 | La grandezza sta nel saper descrivere l’indescrivibile

L’idea che uno sia un grande scrittore come arriva alla nostra mente e al nostro cuore? Che cosa accende in noi la sensazione di essere davanti a un fuoriclasse della letteratura? Stamattina, guidando, provavo a darmi una personale risposta riflettendo sui miei autori preferiti. Intanto mi accorgo che almeno tre di questi hanno a che fare, e profondamente, con la Francia: Romain Gary, che amo per ogni libro che scopro, soprattutto i più folli, anche se non dimentico “Gli aquiloni”; Emmanuel Carrère, che ho iniziato ad amare per il libro che lui odia di più (“Facciamo un gioco”); Michel Houellebecq, che amo quanto più è odiato. Poi naturalmente Philip Roth, lo psicologo dell’inconscio, e Cormac McCarthy, lo psicologo del conscio. E mi fermo qui, lasciando per questa volta gli italiani al prossimo casello autostradale. Ecco, costoro sono diventati nella mie mente e nel mio cuore grandi scrittori perché mi hanno dimostrato di saper descrivere ciò che non si sente, non si vede, non si tocca, a volte non ha nemmeno un nome. Per essere un grande scrittore devi saper descrivere l’indescrivibile. Banale ma vero. Un grande scrittore, per me, è colui che mi fa provare cose che ho già provato, intuito, capito, senza poterle vedere, toccare, nominare. Un esempio? Un grande scrittore ti fa sentire un odore scrivendo. Un grande scrittore ti fa sentire quel senso di rimorso, di rimpianto, di lascivia irritante che non sai definire ma che hai provato, il tutto scrivendo. Un grande scrittore ti fa sentire un suono scrivendo, come Beppe Fenoglio che sa come si scrive il suono di uno sparo, nel finale di un libro da non “spoilerare”, cioè rovinare raccontandolo. E qui l’esempio non poteva non essere nostro, anche se in fondo anche molto americano, seppur di Langa. Ecco tutto questo per dire che può valere, almeno per quanto mi riguarda, pure per le serie televisive. Sono belle serie tv quelle che ti raccontano ciò che non si tocca, non si vede, non si sa nemmeno definire. L’ultima che mi ha convinto, da questo punto di vista, s’intitola “Omicidio a Easttown” e ha come protagonista una sontuosa Kate Winslet, molto normale, qualcuno dice troppo, ma drammaticamente calata nella parte più vera del suo personaggio, la realtà delle birre, delle famiglie complicate, dei capelli maltrattati, legati soltanto da un elastico e lavati quando il lavoro, le paturnie, le tristezze lo permettono. Sentire guardando (o leggendo) è la chiave del successo nel mio cuore e nella mia mente. Chissà, magari a qualche lettore, come riflessione estiva, può venire in mente di condividere qualche suono, odore, sensazione, sentimento descritti dalla sua grande scrittrice o dal suo grande scrittore: lettere@prealpina.it.

 

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#Oltre n°26/2021 | La leggera arte della rivoluzione parte dalla tv

L’idea che avevo della televisione era sbagliata. Poi mi è capitato di collaborare con una trasmissione di successo e di prima serata di Rai 3 e ho capito essenzialmente due cose ben rappresentate da due esempi straordinari di professionisti della tv che nel giro di pochi giorni l’uno dall’altra sono andati in un mondo migliore (copyright Sergio Iapino): Paolo Beldì e Raffaella Carrà. La prima scoperta è che in televisione nulla è lasciato al caso, salvo il caso, l’imprevisto. Tutto è calcolato, scritto, poco spazio ha davvero l’improvvisazione, l’andare in scena senza un copione. Il copione è scritto da autori che lavorano, affastellando per ore idee e suggestioni, discutendo su tavoli pieni di libri e di cibo da delivery. Si arriva a una sorta di scaletta che prevede al millesimo di secondo quasi anche la smorfia del conduttore o della conduttrice. Fare tv è come scrivere una sceneggiatura continua, un concerto sinfonico: il bravo autore deve arrivare a capire perfino quando deve lasciare una pausa per dare al pubblico la possibilità di ridere, applaudire, commuoversi. La tv è un’arte quasi esatta e farla bene è da veri fuoriclasse, da scienziati della matematica dell’audience e delle emozioni degli spettatori, da professionisti e da lavoratori senza requie. Come un cuoco non sbaglia mai dosaggi degli ingredienti e tempi di cottura: il talento di un Beldì. Fare tv è sentire il battito del cuore del popolare. E qui viene la seconda lezione appresa, quella che riguarda appunto la popolarità. Come si fa a essere popolari? Che cos’è la popolarità? Ecco, chi fa tv deve continuare a interrogarsi su questo tema per fare al meglio il suo lavoro. Per essere popolari bisogna essere larghi, aperti, inclusivi, bisogna rispettare i gusti di tutti e contenerli in un’unica scaletta, in un’unica sceneggiatura, in un piatto ben servito. E per non far sentire alcuno escluso, dev’essere una popolarità non contro qualcosa o qualcuno – come capita sempre più spesso con il tipo di popolarità di molti influencer e/o odiatori da tastiera, ma deve essere una popolarità per qualcuno o per qualcosa. Per esempio, ha ragione il Guardian quando spiega che Carrà è stata una femminista senza essere mai una femminista perché, tra le altre cose, in fondo, ha liberato, e con una canzone, le donne dal tabù del piacere sessuale e il far l’amore «da Trieste in giù» da un certo perbenismo troppo ipocrita e troppo censore. Ma non lo ha fatto contro o con la logica dell’affermazione astiosa, rivendicazionista, anzi, lo ha fatto con la gioia, sorridendo e ballando, per fare sentire tutti a casa, a posto. È il segreto della popolarità, dell’arte televisiva.

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#Oltre n°25/2021 | Il G8 di Genova vent’anni dopo. Cosa rimane

L’idea che siano passati vent’anni dal G8 di Genova è stata cancellata dall’idea che sono passati vent’anni dall’11 settembre e dalle Torri gemelle. Meno di due mesi trascorsero allora tra i due eventi – i fatti di Genova, come spesso sono richiamati, andarono dal 19 al 22 luglio 2001 -, ma il secondo si prese il titolo del ventennio successivo. E non lo molla nemmeno ora, nonostante articoli, come quello di Michela Murgia sull’Espresso del 21 giugno, o podcast, come quello intitolato “Limoni”, creato per Internazionale da Annalisa Camilli, rievochino oggi il summit e la piazza in cui morì Carlo Giuliani. Tutti ricordano dov’erano l’11 settembre, per Genova è tutto più offuscato come dietro una coltre di lacrimogeni, quelli che – mito vuole – irritano di meno se usi il succo di limone, appunto. Per tutti Genova è offuscata? Anche per me, che pure c’ero. Era una delle mie prime e poche missioni in esterna dalla redazione. Mi ricordo arrivare accaldato ed eccitato, sulla Peugeot rossa plurigibbonata, in una Genova vuota: si vedevano soltanto o gruppi di ragazzi con zaino e spesso caschi attaccati allo zaino (e io ingenuamente mi chiedevo perché) o forze dell’ordine con casco e scudo (e io qui sapevo già un po’ di più perché). C’era una surreale piazza centrale ben protetta in una zona rossa – come cambiano i colori e le loro definizioni negli anni, oggi che siamo tutti in zona bianca e senza mascherina -, c’erano fioriere ben curate e nessuno nel giro di centinaia di metri. Mi ricordo scendere impaurito e incuriosito in un piazzale intitolato al più glamorous e liberal presidente Usa, JFK, sprangato, fumoso e urlante, al fianco di un tranquillissimo, lui, Giuliano Ferrara, non proprio l’idolo, allora, delle piazze black bloc di sinistra dura. Ricordo il mio collega, Lanfranco Pace – lui però stava sempre in strada, io più spesso al caldo del dibattito geopolitico – e lo ricordo gridare «libera stampa in libera manifestazione» mentre una schiera di ninja incappucciati ci veniva incontro minacciosa, per poi passare oltre, in quello che io rammento come l’ombroso sottopasso che divideva il fronte no logo dal ciuffo dell’elegantissimo presidente giapponese Junichiro Koizumi. Mi ricordo avvicinare la consigliera per la sicurezza nazionale Usa, Condoleezza Rice, per farle domande sui sondaggi negativi per il presidente Bush figlio. Prima che tutto accadesse e si prendesse tutto il ventennio successivo, una banale domanda sui sondaggi. La banalità della politica, prima che la storia fosse segnata da eventi più o meno offuscati nella memoria e prima che il mondo continuasse a dividersi in buoni e cattivi, con appartenenze a fasi alterne, dimenticando la non banalità del mondo reale e globale.

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