
#Oltre n°43/2021 | Fuori dai binari: cinquanta sfumature di Covid

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L’idea che la rete ci porti sempre più nel futuro è talmente ovvia che ormai usiamo il web come respiriamo. L’aria c’è, la rete c’è. Salvo cataclismi. Però intanto alle nostre vite, alle nostre biografie, perfino alle nostre personalità succedono cose, accadono effetti di cause poco colte, poco percepite. Siamo infatti letteralmente portati, accompagnati nel futuro, nel nuovo, oltre quello che siamo, da nodi e legami tra nodi che costituiscono la rete. Per esempio la musica. Ho iniziato ad ascoltare David Bowie perché Marco, camminando sulla spiaggia, mi disse: «Ascolta questa cassetta». Ho scoperto e amato subito il jazz perché vidi la sterminata collezione di dischi di Max e Miles Davis fu il primo. Ho saputo che cos’è l’Indie perché Francesca me ne ha parlato quando ai concerti dei The Giornalisti eravamo un centinaio. E altri esempi, passando dalle cassette ai dischi ai cd agli mp3 alla app prescelta. Poi ho inserito questi miei gusti come risposte a domande sulle mie preferenze che mi ha posto la mia app, appunto, preferita per ascoltare musica dallo smartphone. In un frullato di nodi e legami un algoritmo – con o senza contributo umano? – ha miscelato Gaber, Bowie, Bertoli, Coltrane, Leo Pari (ah, c’è il concerto domani a Milano), Tommaso Paradiso, Achille Lauro, Marrakesh, Nannini e Sibelius e Shostakovich e altri, mi ha preso per mano e mi ha portato a conoscere Destroyer, Gotan Project, Locasciulli, Oscar Peterson Trio, Passenger, Portico Quartet e tantissimo new jazz britannico (favoloso, peraltro). Ecco, non me ne sono tanto accorto, ma sono andato oltre, grazie a un algoritmo che come mi suggerisce scarpe da comprare mi apre stanze musicali finora da me inesplorate. Qualche giorno fa Luca Sofri, direttore del Post, scriveva nella newletter alla sua redazione qualcosa come: suggeritemi play-list da ascoltare, non ne trovo di belle. A un messaggio in cui gli suggerivo una app, giustamente rispondeva: «E io pago…». Perché alla fine, come nessun pasto, anche nessuna app è davvero gratis. Resta però la potenza dell’idea che anche senza volerlo non riesci a star fermo in quello che ti piace e conosci, ma sei portato a conoscere cose che ti piaceranno. Questa è la trasposizione meccanica e musicale – e qui ritorno a citare Luca Sofri quando ironizza su frasi come “innovazione nella tradizione” – di come per andare nel futuro serve conoscere il passato, le esperienze che hanno portato ai gusti del presente, per spostarsi ad apprezzarne le evoluzioni. È un amore meno statico e più dinamico, ma è pur sempre amore per la musica. E noi paghiamo.
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L’idea che sia soltanto un fumetto è ovviamente spazzata via al primo cambio luci o alla prima battuta della coscienza del protagonista sotto forma di Armadillo e sotto voce di Valerio Mastandrea. Strappare lungo i bordi, la serie televisiva di e con Zerocalcare su Netflix, è davvero tante cose, oltre naturalmente a un corso accelerato di romanesco per biellesi e non soltanto.
È un romanzo di formazione, sei sedute di psicanalisi generazionale e capitolina, una storia di e tra amici, l’autobiografia di una “cintura nera di come si schiva la vita” ma non gli affetti, quinto dan. Ma più di tutti l’opera di Zercocalcare ha un merito unico, di questi tempi. Più delle battute comiche, più delle sottolineature a temi sociali anche se soltanto accennati, ma comunque spiattellati lì, nel bel mezzo di una mezza risata, più del tratto – chi lo ama, chi meno, chi dice che in fondo in America ce ne sono e ce ne furono di migliori, e figuriamoci che no – più del mettere alla prova una regia informatica applicata a un’arte figurativa, c’è un merito che merita più attenzione dell’uso sapiente dei colori, del giorno e della notte, della colonna sonora da urlo, delle capacità caricaturali e bozzettistiche dello sceneggiatore, autore, disegnatore.
Il grande merito è naturalmente nell’aver capito di che cosa abbiamo più bisogno in tanti, forse tutti, di questi tempi. Per superare le indefinitezze delle nostre vite, le cicatrici di amori perduti, di lavori annoiati, di sogni abbandonati alla prima curva in salita, abbiamo tutti bisogno di qualcosa che ci aiuti. Di un respiro di sollievo, di qualcosa di dolce, il mitico gelato del tormentone del Secco, altro protagonista della serie. E questo qualcosa Zerocalcare ce lo mette fin dalle prime scene. Non è malinconia, non è nemmeno ironia. Non toglie nemmeno nulla alla chiarezza del racconto e anche alla determinazione dei vari messaggi. Zerocalcare sparge questo ingrediente per tutti i primi cinque episodi ma senza che il suo sapore prevalga sugli altri, senza che il suo nome si evidenzi in modo chiaro. Nei primi cinque episodi ti prepara ad accogliere l’ospite più gradito, ti prende per mano per aiutarti ad accettare te, gli altri, il mondo, ma ti fa anche sempre venire il sospetto che per fare tutto ciò tu abbia bisogno di qualcosa, di una specifica cosa, dell’ingrediente segreto che rende la vita vivibile, le persone meritevoli di attenzione e la serie televisiva di successo. È l’arma finedimondo anche se spesso viene erroneamente descritta come una forma di debolezza. E invece è tutto l’opposto e invece è la chiave nella toppa del sesto episodio. Zerocalcare è bravo perché te la fa provare da subito ma te la svela alla fine, non è uno spoiler: abbiamo bisogno di tenerezza.
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L’idea del reflusso, anche se la parola è davvero brutta – meglio revival, riscoperta, ricordo -, mi ha sempre affascinato molto perché mi piace pensare che siamo un po’ tutti anche nostalgici, non soltanto protesi verso il futuro o allettati dalle comodità tecnologiche del presente. Ricordo, per esempio, un giorno alla stazione Termini, prima dell’ennesimo viaggio di ritorno a Milano, prima di guardare l’ennesima puntata dell’ennesima serie televisiva in streaming per non ascoltare le telefonate di lavoro del vicino di scompartimento agente di commercio. Mi pare in quel periodo fosse. Passo vicino all’edicola. I giornali li avevo, qualcuno di carta, qualcuno nel tablet. Un libro pure, perfino e-book. Mi cade l’occhio su Diabolik, il fumetto dal formato tascabile perfetto e dalla durata precisa di un viaggio in treno. Lo compro. Lo leggo. Addio, almeno per un po’ allo smartphone. Addio, almeno per un viaggio al tablet. I viaggi “diabolici” divennero due, poi tre, poi sempre. Si creò una rassicurante consuetudine: edicola, Diabolik, mezzo viaggio, poi magari una puntata o un libro. Di carta? Non sempre, dopo un po’ di e-reader, quando appunto ero oggetto e dunque soggetto del reflusso dei desideri, del ritorno.
Lo stesso meccanismo – credo – è stato alla base di trasmissioni di successo di Fabio Fazio in particolare, come Anima mia, e della televisione in generale. Abbiamo tutti, prima o poi, voglia di un revival. È un po’ come rivedere la prima fidanzata o il primo fidanzato del liceo in una vecchia fotografia saltata fuori per caso oppure al supermercato per un gioco del destino, come in film di Gabriele Muccino. È tornare ai piccoli piaceri dei nostri mondi interiori antichi. Più fisici e meno virtuali.
Per fare un altro esempio, a un certo punto, proprio quando tutta la musica era diventata digitale, freddamente pulitissima, ecco ricomparire il giradischi. Certo, più moderno, più, ma comunque sia gli appassionati ricominciano ad acquistare i 33 giri, a voler sentire della musica anche il lieve fruscìo della polvere nei solchi, come il croccare della carta di un libro o di un quotidiano. E dunque i giornali assomigliano ai 33 giri? Ma no, niente polvere, anzi. Intanto pare che stia calando la presenza degli italiani sul web, dopo i mesi del lockdown e degli zoom e del tutto digital, tv e social media. Ora tutti a chiedere il libro che si vende con il giornale all’edicolante. Tutti a riscoprire gli allegati dei giornali. Tutti di nuovo al cinema, al teatro, in piazza, allo stadio, perfino presto a sciare. Avanti, avanti, avanti, si può spingere di più, come Giorgio Gaber ne La nave.
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Ne voglio riparlare non soltanto perché nel testo ci sono brocardi o battute, decidete voi, fulminanti come quella di Vulvia, alias Corrado Guzzanti: «Per cambiare la televisione, bisogna andare al negozio». Oppure quella dell’editore e intellettuale Vanni Scheiwiller: «Non ho nulla contro il successo, ma neanche contro l’insuccesso». Oppure quella di Pietro Galeotti: «Ognuno di noi coltiva con cura il segreto del suo insuccesso». E ancora quella di Pietro Galeotti: «Si capisce dal primo incontro preparatorio per la riunione di domani che il programma sarà un casino totale. Veti incrociati, sospetti, filosofie opposte di intrattenimento, stili incompatibili. C’è già tutto il necessario per naufragare. O trionfare contro ogni logica». Ma si parla della tv o della vita di ognuno di noi?
Boh, intanto non è di questo che volevo parlare e/o scrivere, ma di ben altro. Di una cosa che mi gira in testa senza, anzi, contro ogni logica da quando ho letto La Riunione. È una domanda. È una riflessione che tira in ballo l’ozio, nel senso virgiliano e oraziano del termine, cioè un vuoto da tutto per riempirlo di saggezza. È la soluzione, mia personale, ovviamente, all’enigma del libro di Galeotti. Tanto lo abbiamo già scoperto che un libro, una volta scritto, diventa quasi più dei lettori che degli scrittori. È una cosa che vorrei tanto chiedere all’autore tv e del libro, ma non vorrei essere deluso. Magari mi sono costruito tutto un film, ho dato una interpretazione troppo socio-psicologica del volume, di questa voglia di parlare del funerale cui magari nemmeno lui stesso parteciperebbe. Delle riunioni che sembrano non andare da nessuna parte e poi vanno addirittura in onda, in prima serata, magari con Fiorella Mannoia come conduttrice o star. Tutto questo girare attorno a professioni che declinano, a “si stava meglio quando si stava peggio”, a “non esistono più le mezze stagioni televisive”, ancora meno quelle di una volta, a “com’ è bravo Carlo Sassi” e “che ridere con lui”, a “come ci vorrebbe un pubblico più così” oppure “più cosà” e comunque la “’Ndrangheta in tv non tira”. Insomma, ma non è che voleva dire una cosa semplice quanto radicale, cioè che per pensare ci vuole soprattutto il tempo?
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