IL PENSIERO DEL DIRETTORE
Cuore e amore. Quante canzoni sono state scritte con questa doppia fonte d’ispirazione? Costruite su questo infallibile binomio? Quante poesie? Quanti spasimi? Quante emozioni? Passa tutto da quell’organo che pompa il sangue nelle vene e ci fa sentire vivi. Un moto perpetuo che ha un inizio e – purtroppo – una fine. Come l’amore. Non dovrebbe essere così. Almeno proviamo a illuderci che non sia così. Che i nostri sentimenti sappiano andare oltre le miserie della vita terrena. Ma ci sbagliamo. O almeno non abbiamo prove per dimostrare che sia vero il contrario. Ci hanno tentato in tanti a convincerci ma, in un mondo che tutto divora e travolge, c’è poco spazio per immaginare o pensare a qualcosa che duri in eterno.
Il nostro cuore si fermerà. Così come tutto il repertorio di speranze che ci hanno insegnato fin da piccoli. Realtà dura da accettare. Un po’ come quando ci hanno detto che non esisteva Babbo Natale. Ci siamo rimasti male, molto male. Ce lo ricordiamo ancora oggi. È arrivato il fratello o la sorella maggiore, o il cugino o l’amico e ci ha spiattellato in faccia la verità. Era meglio vivere nella bugia. In fondo ci interessava (e ci interessa di più) la felicità della verità. Ecco perché non ci stanchiamo mai di ascoltare il nostro cuore che non ci dice come stanno le cose – non cerca di spiegarci la realtà – ma ci regala qualcosa di unico e di insostituibile: il senso dell’eternità.
Fermatevi un attimo. Smettetela di tenere il capo chino sul cellulare o sul computer e ponetevi in una stanza silenziosa. Riuscirete a sentire il suo battito. È la vita. E non può finire come se nulla fosse. Allora vi ricorderete delle canzoni che avete ascoltato, delle poesie che avete letto, dei romanzi che vi hanno fatto palpitare o dei film che vi hanno indotto a ridere e a piangere.
Cuore e amore, questo è il connubio che funziona. Che non ci fornisce la verità ma che ci offre tanta felicità. Vale la pena, allora, rimetterci i calzoncini corti e credere a Babbo Natale. Una frottola colossale che ci ha accompagnato negli anni più belli della nostra vita e ci permette di avere la chiave per dischiudere lo scrigno più importante della nostra vita, quello del cuore.
La felicità, dunque, non dipende da fattori esterni ma solo ed esclusivamente da noi. Dalla nostra capacità di aprire quell’organo collocato nel petto che ci mantiene vivi. E lo farà anche quando smetterà di battere. Ma solo se saremo disposti a crederci.
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Mi raccontava un amico che a sua figlia che frequentava l’asilo, le maestre avevano chiesto: Che lavoro fa tuo papà? «I letti», Mi raccontava un amico che a sua figlia che frequentava l’asilo, le maestre avevano chiesto: Che lavoro fa tuo papà? «I letti», aveva risposto. I bambini sono sinceri e non hanno filtri. Siccome vedono che il papi si impegna nei lavori di casa, lo dicono. Normale.
Potrebbe essere questa la cura antistress del 2023. Seri professionisti incravattati potrebbero trovare la forza di affrontare tutti i giorni la valanga di guai che piovono loro in testa dedicandosi alle faccende domestiche. Che bello caricare la lavatrice, stendere i panni, spolverare. Una gioia stirare. Una goduria lavare i vetri. Una specie di nirvana passare il Folletto. Ma sarà davvero così? A quanto pare le moderne scuole di pensiero filosofico-psicologiche provenienti dall’Oriente sostengono tale tesi. Una casa pulita e in ordine dà una soddisfazione senza pari e i lavori servono per scaricare le tensioni. A questo bisognerebbe aggiungere la cura dei fornelli e la creatività in cucina. Meglio di così.
La casa intesa come rifugio e riparo da una società cattiva, per giunta prende sempre più consistenza. Una volta c’era il sogno delle vacanze ai tropici, della vita spericolata e delle pazzie per sentirsi potenti. Adesso vale il modello opposto. Lo capisci sin dall’adolescenza quando la maggior parte dei giovani, invece di cercare fortuna e divertimento sui campetti di calcio o nei ritrovi che andavano di moda fino a un po’ di tempo fa, preferiscono rinchiudersi nella loro cameretta. Non che la tengano pulita e in ordine. Questo è un passaggio che accadrà dopo, ma intanto coltivano il loro giardino di casa. E non lo mollano.
La terapia del lavoro (quello di casa) che nobilita fa parte, inoltre, delle strategie di disintossicazione e reinserimento utilizzate anche nella comunità che combattono le dipendenze. Occupare la mente nelle faccende domestiche serve a evadere e a stare meglio. Quale potere benefico sta alla base di questa strategia? Quale enorme risorsa si trova a portata di mano? Una bella ramazza, insomma, e i problemi vengono spazzati via.
Peccato però che lavorare stanca e che la nostra vita è fatta di talmente tanti impegni che lavare e stirare lo facciamo fare agli altri, non rendendoci conto di cosa ci perdiamo. Quindi da domani si comincia. Da domani, però, non oggi
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L’arcobaleno va di moda, se non altro perché simboleggia la rivoluzione sessuale in atto nella nostra società. Si può discutere se sia giusta o meno, ma non si può negare che sia in corso una profonda trasformazione del modo classico di vedere maschio e femmina, uomo o donna. Viviamo in un contesto fluido, ci spiegano quelli che ne capiscono più di noi, ed è normale accettare la libertà di genere. I colori dell’arcobaleno possono perciò diventare l’indicazione dei diversi orientamenti.
Raccapezzarsi in questo nuovo mondo non è semplice perché vengono aggiunte sempre nuove sfumature, tanto che potrebbero presto non bastare tutte le intonazioni dell’arcobaleno. Ma questo è solo un particolare rispetto a un discorso più complesso che pone al centro l’individuo e la sua possibilità di espressione, al di là delle gabbie poste dai vincoli sociali o dalla morale comune. Massimo rispetto, dunque, dell’arcobaleno sessuale a patto che non diventi ostentazione. Baciarsi tra uomini sul palco di Sanremo non è l’affermazione di un diritto sacrosanto ma diventa semplice provocazione per attirare su di sé l’attenzione e costruire un castello di pubblicità.
Esattamente l’obiettivo opposto che si prefigge di raggiungere la liberazione sessuale in atto in questi anni. Così pure diventa stupida forzatura voler togliere ogni catalogazione maschio/femmina nel nostro vivere quotidiano. Le esagerazioni non sono mai utili per costruire una società migliore, soprattutto quando i messaggi vengono veicolati a casaccio, andando a colpire anche ragazzi e ragazze (per non dire bambini e bambine) che non hanno ancora gli strumenti per riuscire a decodificare la realtà. Non è moralismo, questo. Ma semplice ragionevolezza per non trasformare il nostro mondo da libero a liberticida, cioè schiavo del pensiero unico. Che tutto contesta e distrugge. Siamo in un periodo di passaggio. E come tale va accettato.
Ma la bandiera arcobaleno non sta solo a simboleggiare la libertà sessuale che viviamo in questi anni. È pure un bellissimo segnale di pace. Abbiamo visto sventolare tante volte questo vessillo ed è proprio adesso il momento giusto per far sì che sappia trasformare la realtà. Noi conosciamo bene la pace perché abbiamo la fortuna di non essere colpiti da conflitti ormai da decenni. Quindi non diamo più peso a questo bene enorme. Ma è sufficiente spostarsi in quella parte di Europa che da un anno soffre a causa di bombe e carri armati per renderci conto che dobbiamo restare aggrappati all’arcobaleno e non lasciarcelo scappare. Lo possiamo fare in un solo modo: sconfiggendo il germe dell’odio che attraversa anche i nostri giorni e ammorba le nostre vite. Sarebbe già un buon inizio. E l’arcobaleno – tutti lo sperano – potrebbe ri-spuntare dopo la tempesta.
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Destino infausto quello di chiamarsi Silvestro e di dover scrivere un pezzo sui gatti, anche perché avere il nome del famoso personaggio dei cartoni animati non induce più simpatia verso questa specie animale che ha la particolarità di essere molto indipendente e parecchio graffiante.
Il gatto o lo ami o lo odi. Devi prendere una posizione. Ti schieri e, nel momento in cui scegli da che parte stare, ne deriva tutta una casistica sul tuo carattere, sui tuoi vizi e le tue virtù. Chi ama i gatti ha un senso estetico superiore, apprezza fascino ed eleganza, si concede solo a chi si fida, va conquistato con pazienza e astuzia. Così, almeno, sintetizzano i luoghi comuni. È tutto da vedere se siano veri. Di certo, però, chi non ama i mici li vede come animali opportunisti, che si avvicinano solo per il cibo, che non si dedicano con la dovuta attenzione al loro padrone, meno fedeli dei cani.
Che, invece, piacciono molto di più a chi odia i gatti. Troppo facile, però, andare d’accordo con un cane perché ti fa sentire forte il senso di dipendenza dall’uomo, la fedeltà, la totale dedizione. Quindi, dove va a pendere l’ago della bilancia? Non c’è una regola. Si può preferire il gatto piuttosto del cane o si può coltivare uno spassionato amore per entrambi.
Di sicuro, sempre più persone, deluse dal genere umano, si rifugiano nell’affetto degli animali domestici. È una tendenza che fa parte della nostra epoca e che vorrà dire qualcosa. Descrive in modo chiaro il senso di solitudine affettiva che ci circonda. Lo so che è brutto dirlo, ma è così. E, come per tutti i rapporti affettivi, è indispensabile il senso della misura, affinché il sentimento non diventi tossico. Sbirciando su internet si trovano foto di gatti vestiti come dei bambinetti.
Coccolati e vezzeggiati. Idem per i cani. Lo spiccato senso di autonomia del gatto rischia di finire in secondo piano rispetto a queste morbose attenzioni. Nell’amore per i gatti (e pure per i cani), dunque, il difetto non risiede nell’animale, nelle sue caratteristiche caratteriali, ma in chi sta al suo fianco. Spesso le povere bestiole sono solo degli indicatori del livello di problematicità dei padroni. Continuate, quindi, ad esprimere il vostro affetto per i gatti e per i cani come meglio credete ma non dimenticate mai che sono animali e l’errore più grosso è quello di cercare di umanizzarli. Se ve lo dice uno che si chiama Silvestro, credeteci.
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Il mondo vegetale ha un’anima. Questa, che può sembrare un’enorme sciocchezza, quasi un’affermazione blasfema, un po’ di verità la contiene. Un’anima buona caratterizza le piante. Sono costrette a subire le angherie dell’ambiente e le nefandezze dell’uomo che spesso le trascura, quando addirittura non le ferisce, le taglia, le abbatte. Nonostante tutto, però, il regno vegetale continua a dimostrarsi amico affidabile se non altro perché – ce l’hanno insegnato a scuola – trasforma l’anidride carbonica in ossigeno, elemento vitale per il mondo animale.
Ma non è sempre così. Le piante carnivore, infatti, non sono in grado di trarre il nutrimento dalla fotosintesi e si arrangiano come possono, mangiandosi insetti e qualsiasi altro organismo capiti a tiro. Rompono una catena che è quella del servo-padrone (direbbe Friedrich Hegel) o, se preferite, della vittima-carnefice. In questo sta la loro forza e la loro debolezza.
Le piante carnivore provano a ribellarsi all’ordine costituito, cercano di girare le regole della natura, ci insegnano che si può vivere anche senza omologarsi, si riesce a resistere pur se gli altri ci vorrebbero buoni e belli. Le piante carnivore sono brutte rispetto all’impressione di forza che comunica una quercia o alla naturale soavità di un fiore appena sbocciato. Sono antipatiche perché il solo pensare che possano essere carnivore ci infastidisce quando addirittura non ci impaurisce. Dunque sono costrette a vivere di una vita tutta loro, isolate ma, forse proprio per questo, adesso sempre più di moda.
Nella diversità, quindi, sta la loro forza e la affermano con orgoglio quando catturano il ragno inesperto e se lo mangiano. Ci volevate morte? Invece noi resistiamo. E siamo lì a dimostrare che la nostra migliore dote è il coraggio di andare controcorrente, sganciate dal buonismo delle loro colleghe-sorelle piante normali. Niente paura, poi, le carnivore non hanno mai morsicato l’uomo come certa divertente letteratura le ha disegnate in passato. Rivendicano solo il rispetto del loro mondo e chiedono una cosa molto semplice a una realtà, quella terrestre, che si affanna a ridurre tutto al semplice teorema del giusto e dello sbagliato. Secondo chi, però?
In questa domanda sta la chiave di una sfida che va avanti da millenni visto che le piante carnivore vengono fatte risalire a una mutazione genetica durante l’era dei dinosauri. È passato tutto questo tempo ma la risposta non è ancora arrivata: natura, consuetudine, obblighi sociali? Chi stabilisce le regole? Le piante carnivore stanno in quel cono d’ombra che mai verrà illuminato. Ed è giusto (?) che sia così.
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Dei cinque sensi è il più trascurato, a volte anche bistrattato. Nessuno farebbe a meno del gusto che può regalare l’estasi, soprattutto ai golosi. E chi rinuncerebbe al tatto che permette di avere la prima conoscenza del mondo che ci circonda o della vista che tutto illumina e disvela? Non sia mai che sparisca l’olfatto: certi profumi raggiungono l’anima e ti fanno stare bene. E l’udito? Poverino, se ne sta lì buono buono. Lui ascolta, sente tutto, ma non si lamenta mai, a parte quando c’è quel ventaccio freddo in montagna che ti scatena una di quelle otiti da stare male. Eppure è la porta d’ingresso delle emozioni, per esempio quando ascolti la Nona di Beethoven o, se sei più rock, la chitarra dei Pink Floyd.
L’udito è un senso discreto, educato, non invadente, quieto. Insegna, proprio per le sue caratteristiche, non a gridare ma ad essere ascoltati. Di questi tempi è il meglio che possa esistere. Quando regnano rumore e confusione, lui cerca di mettersi al riparo. Quando, invece, l’atmosfera si fa dolce, trasmette vero godimento. Ascoltare il silenzio è una delle esperienze più belle da compiere nella vita. Purtroppo non accade mai nella nostra esistenza quotidiana, alle prese con città caotiche e continui contatti sociali. Oppure tempestati dai suoni che provengono da televisori, elettrodomestici, telefoni e tante altre diavolerie. Provate ad andare in alta montagna per sentire davvero il silenzio. Si sprigiona, naturale, un’impressione di piacere ed è il nostro udito a condurci verso oasi di puro ristoro.
L’esperienza restituisce il meritato valore al bistrattato senso. Ed ora ci insegnano che a ogni suono corrisponda un colore, stupendo corollario di un mondo che non conosciamo ma ci risulta familiare. Insomma, l’udito ci porta verso territori che riteniamo inesplorati ma, in verità, fanno parte del nostro essere più profondo. Lasciamoci, allora, accompagnare e guidare dall’ascolto, prima di tutto di noi stessi. Lo diceva anche Socrate: conosci te stesso? Senza questo presupposto fondamentale tutto ci apparirà come caotico e senza senso ma se avremo la pazienza di fermarci un attimo per sentire dove ci porta il nostro udito allora disporremo di una chiave che ci apre le porte per comprendere la realtà che ci circonda. Non è poco. Basta ascoltare.