Non basta vincere
Quella contro il virus non è che l’ennesima battaglia in cui siamo impegnati. Perché di combattimenti, ognuno di noi, ne affronta tanti ogni giorno, siano piccoli o grandi. Certo questa pandemia è una sfida dura, e soprattutto invadente, asfissiante e capace di fiaccare il morale. Però dal momento della nascita la natura ci butta in battaglia. Volenti o nolenti le sfide da affrontare sono continue. Il nostro destino è questo, non possiamo dimenticarlo.
E possiamo dare un tocco di leggerezza pensando al fatto che a tutti tocca. Certo con qualcuno la sorte è madre e con altri matrigna. Ma difenderci ed attaccare è nel nostro dna. Il pensiero così oggi si aggira su questioni che al combattimento, alla sfida, sono legate: ovvero la vittoria e la sconfitta. Si può perdere con dignità o no, accettare il verdetto o recriminare (quando ciò è possibile) ma tant’è. E invece la vittoria sembrerebbe una faccenda senza discussioni, incontrovertibile. Ma così non è. Perché spesso non basta vincere. O meglio, non è sufficiente. Ed è cosa che possiamo sperimentare ogni giorno, nei fatti minuti come in quelli più grandi e seri. Si può vincere, si può avere ragione (e dunque trionfare in una disputa dialettica o altro) e non cogliere mai il frutto del successo. Così va il mondo. Per farla breve e per fornire un esempio storico, reale e tangibile, al ragionamento mi affido alla biografia di un soldato. Il suo nome era Josef Roth (proprio come il grande giornalista e scrittore mitteleuropeo) era nato a Trieste, quando la città apparteneva all’Austria-Ungheria. Nella prima guerra mondiale, col grado di feldmaresciallo, gli venne affidato un incarico gravoso e disperato: impedire ai russi che stavano dilagando verso il centro Europa di accerchiare alcune armate degli Imperi centrali. Lo fece in maniera brillante e coraggiosa e così fu promosso generale ed ebbe anche un titolo nobiliare, legato al luogo della battaglia. Poi venne mandato sul fronte italiano, nel 1915, e dovette difendere il Tirolo, in una situazione di inferiorità numerica rispetto al nostro esercito. Si comportò con abilità e fu nuovamente promosso. Ma il suo diretto superiore, l’arciduca Eugenio, decise di non affidargli altri comandi ritenendolo “troppo premuroso e indulgente nel trattare con i suoi soldati”. Era vero. Si disse che tendeva a evitare assalti e azioni inutili e rischiose, che tanto piacevano ad altri ambiziosi di promozioni e di medaglie, e a risparmiare i suoi sottoposti. Così anche il capo di stato maggiore austro-ungarico Conrad lo classificò “carattere dignitoso, cavalleresco, impavido e coraggioso ma più adatto ad assumere la posizione di ispettore in addestramento militare, poiché ha cuore e comprensione per i giovani”. Concluse la sua carriera di soldato e la guerra in accademia, mentre la sua patria, che aveva servito con dignità, spariva dalla carta geografica. Probabilmente la sua più grande soddisfazione fu che i suoi ex soldati continuarono a chiamarlo con l’appellativo coniato in trincea: non generale ma “papà Roth”. A ben pensarci una vittoria vera.
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