C’è un bel quesito che gira intorno. Un domandone che tutti dovremmo farci. Per primi coloro che abbiamo delegato a guidarci, ma nessuno si può sottrarre. Senza metter mano ad alcuni fondamentali non si parte. Li abbiamo sotto gli occhi. Li hanno davanti al naso quelli che sono stati chiamati a decidere, a scegliere quale strada percorrere. Sono fondamentali su cui si basa la vita semplice, la quotidianità da cui non possiamo prescindere. Si chiamano lavoro e sicurezza. Non dipendono da ideologie o da visioni divergenti, non sono frutto di narrazioni o di percezioni. Sono questioni essenziali. I cittadini debbono sentirsi sicuri nelle proprie case e nelle strade, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma lo devono essere anche nel luogo in cui operano ogni giorno. Perché la sicurezza, per quanto è nelle possibilità umane, vuol dire non solo difesa da aggressioni e violenze, da disordini creati da facinorosi o criminali. Vuol dire viaggiare sicuri, avere un territorio che non si sgretola, ponti che non crollano, pestilenze che non dilagano. E persino fabbriche che non chiudono per motivi che non dipendono dal mercato.
E accanto alla sicurezza serve il lavoro. Perché senza la possibilità di costruire la propria indipendenza economica non c’è libertà. Non c’è futuro, e neppure una vita vera. E il lavoro non lo si crea con alchimie strane ma con l’impegno, il coraggio, il sacrificio e la creatività. Così è assurdo penalizzare proprio quelli che ci provano, a crearlo, obbligandoli a sacrifici inutili e a penalizzazioni incomprensibili. E chi il lavoro non lo ha non può essere illuso che ci siano scappatoie, furbi rimedi, sostegni a disposizione all’infinito. Un Paese serio si muove cercando di creare il lavoro, dando sostegno a chi lo offre ai concittadini, specie se giovani. E non prendendo a mani basse da chi produce per poi supportare apparati clientelari o nullafacenti. Lo Stato sociale è una cosa eccellente, ma appunto deve aiutare con forza ed equità le fragilità vere, le debolezze momentanee, i bisogni reali ed eccezionali. Il pensiero di oggi s’è aperto su un quesito. Nascosto nell’acronimo del titolo.
Quattro lettere che sono le iniziali di altrettante parole: C.S.S.S. Vale a dire: Cosa succederà senza speranza. Questo dobbiamo chiederci e chiedere ad alta voce. Se ci ritroviamo a vivere giornate fatte per arrivare a sera alla meno peggio, se tiriamo a campare quanto potremo durare? Non molto. E i dibattiti sulla sicurezza, percepita o reale, o quelli sulle ricette per creare occupazione e Pil troppo spesso sono solo surreali chiacchiere. Figlie di ideologie incancrenite. Di contrapposizioni fuori tempo e inutili. Senza la speranza di poter guadagnare e di poter costruire, ma soprattutto di poter realizzare i propri progetti nessuno scende in campo, nessuno si impegna. Si resta attoniti osservatori di un sistema che si sfalda, mentre c’è chi spera di mettere pezze a casaccio. Senza una strategia di fondo, senza progetti, senza illuminazioni. C.S.S.S. è proprio un bel quesito.
Da risolvere in fretta.
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