Non c’è del marcio in Danimarca, non più di tanto in Borgen (tre stagioni, più una, l’ultima da vedere e nuova, su Netflix), sebbene le atmosfere shakespiriane non manchino certo, naturalmente. C’è la politica e le sue due facce dall’antica Grecia al pratone di Pontida, senza passare per House of Cards (non è paragonabile in nulla): il cuore e la mente, le emozioni e il cinismo, la madre scafata, ex premier e neoministra degli Esteri e leader di un nuovo partito da lei fondato, e il figlio ideal-ambientalista che rischia la condanna penale e si mette in scia dell’augusta genitrice pur di far carriera, presto e bene. Ma non era idealista? Ma non era giovane?
Tutto Borgen ruota attorno alla mezza coda di cavallo di Birgitte Nyborg, cioè l’attrice Sidse Babett Knudsen, che nella fiction come nella vita è una donna fiera della sua età di passaggio e del suo straordinario modo di arricciare il naso sorridendo e affascinando. Certo, la competizione-collaborazione con la nuova prima ministra, più giovane, più social, più in ascesa, più temuta, non promette mai nulla di buono, ma non esplode neanche nella svilente autocommiserazione della stessa Nyborg. Una gigante, sempre. Perché, appunto, tutta la serie ruota comunque attorno a lei, perché è lei che indossa nei suoi tailleur tutti gli interrogativi di chi in politica ha il carisma della leadership ma nella vita lo stigma di più di qualche fallimento, magari causato dallo spirito di sacrificio devoto al fuoco sacro del gioco parlamentare, al principio dirigente del del governo e del partito. Ma che senso ha avere il potere, se poi si è costretti ai compromessi? Che senso ha avere alleati, se poi si è costretti a guardarsi le spalle dai loro possibili e probabili tradimenti? Che senso ha avere rivali, e perfino nemici acerrimi, se poi li assumi come consulenti per l’immagine e la comunicazione? Che senso ha avere idee chiare in campagna elettorale, se poi le stesse diventano malleabili nel governo quotidiano della realtà, artica e no? Non ho cambiato idea, io mi adeguo, dice Birgitte. Ecco, pare questa la morale politica e converrete che non c’è del marcio, c’è del realismo un po’ insano. Ma allora che cos’è il realismo applicato all’agire politico, dentro e fuori il palazzo, dentro e fuori i social media, dentro e fuori le discussioni in famiglia? Forse, ma non è un’idea chiara, è solo un tentativo di adeguamento, è la ricerca attimo per attimo dell’equilibrio tra opposte pulsioni, che nella vita non mancano mai, tra opposte convenienze, che nella politica abbondano sovente, e tra avversi principi, che nelle conversazioni sono sempre utili ad appoggiare le nostre possibilità, il dove arriviamo con le nostre forze per mettere punto e guardare l’effetto che ha fatto. E l’effetto che ha fatto è il figlio del potere personale e della situazione reale, che dormono nello stesso letto. È la politica, stupido.