Gianni Clerici, quello del tennis, da Erba o giù di lì, scriveva come viveva e viveva come scriveva. Elegante, leggero, appassionato sempre, ma con il garbo di un gesto bianco. Sottovoce. Tra Piero Chiara e Mario Soldati, era uno scrittore vero prestato allo sport, come tanti scrittori veri peraltro, vero anche e soprattutto nel senso di sincero. Dire il Brera del tennis – Gianni e Gianni – sarebbe banale e ingiusto per tutti e due. Però poi si trovavano all’osteria per davvero, magari anche con Mario.
Il signor Clerici innanzitutto raccontava, anche in prima persona perché viviamo in prima persona, certamente spesso divagando molto, ma è la vita che divaga, dunque non si può non fare. Lui diceva solo “scriba”, ma un po’ mentiva stavolta, era una grande vanteria nascosta, perché lo sapeva di essere bravo, e comunque per lui il tennis era la prosecuzione della letteratura con altri mezzi. O viceversa, “come preferite”, avrebbe sussurrato mentre ti spiegava che il papà di John era molto preoccupato di John, “siamo diventati amici, ma a John non l’abbiamo mai detto, se no si arrabbia”. E poi quella venerazione per la o le Williams, ma non ricordo quale, era tanto per divagare. Perché l’idea per lui era di non essere mai di peso, mai pesante, anche per questo motivo raccontava che la tal definizione gliel’aveva detta tizio, magari il taxista o il cuoco di una sera tardi o qualche amico intellettuale, sottointeso “più intellettuale di me”, ma il sospetto è che non fosse mai vero. Era sempre lui l’autore di tutto quello che gli girava di dire. Gli piaceva prendere la giusta distanza da se stesso, come dalla rete in attacco o dalla riga di fondo al servizio. Sembrava sempre scusarsi della sua presenza, invece era gentilezza, dote rara ma per lui prima, snob con nobilitate. Entrava in una telecronaca con il suo amico e compagno di viaggio, Rino Tommasi, come nel ristorante dove assiste al primo furtivo e amoroso incontro tra Steffi Graff e Andrè Agassi, in Australia, sempre un po’ in punta di piedi. E poi, se non è il caso, non ne scrive: non era lì per il gossip, “ero lì per il tennis”. Sapeva dare sentenze di una nettezza inaudita – Roger dovrebbe smettere, colpa degli sponsor, purtroppo non vincerà più uno slam – ma sempre con il tocco soave di una demi-volée o di uno smorzata.
Ha giocato a tennis sempre. Ha scritto sempre. Ha sempre preso l’ultimo treno per casa, ma se gli mandavi una macchina a prenderlo per venire in tv o a parlare del suo lavoro a un premio giornalistico accettava – se non era di peso – così guardava il panorama, ripensava a una partita o una cena e ricordava il papà che forse lo voleva imprenditore, ma lui doveva scrivere, giocare ed entrare nella Hall of fame non certo solo del tennis.