L’idea che Mark Zuckerberg possa addirittura dimettersi pur di “salvare” la sua azienda, Facebook, dal punto di vista dell’immagine è davvero forte e dà il segno della gravità della situazione. Perché è certo che il suo media in particolare non se la passa bene, dopo i vari scandali legati a dati diffusi, venduti, raccolti e distribuiti secondo criteri opachi, dopo le accuse di influenze elettorali, anche estere, via social, dopo il dibattito acceso sulla diffusione delle fake news, delle notizie false, artefatte da siti vari allo scopo di creare onde di approvazione o disapprovazione sulla base di non verità, di paure od opinioni estreme, dopo le rivelazioni su trucchi algoritmici di gole profonde ed ex dirigenti più o meno pentiti. Fuori dal clamore e dalle breaking news, forse si può riflettere sulla natura in generale dei social media per capire che cosa sta provocando qualche cortocircuito, a prescindere dalle responsabilità personali e sociali che emergeranno altrove. I social network nascono e si diffondono rapidamente grazie a tre ingredienti fondamentali. Il primo è la condivisione di cose, essenzialmente di dati. Il secondo è appunto il dato: io uso gratis un social network per condividere dati e dunque il prezzo che pago per l’utilizzo gratuito del mezzo è il conferimento dei miei dati e dei dati da me condivisi. Il terzo e fondamentale ingrediente, quello che probabilmente contribuisce più di altri all’impazzimento della maionese è la ricerca del consenso, dell’approvazione, del like, o la creazione di onde di odio, di disapprovazione, di dislike, in una parola dell’audience. In una splendida intervista a 7 del Corriere della Sera, Enza Sampò ha
spiegato che uno dei problemi, per la televisione, è nato quando la qualità di una trasmissione e la sua audience rilevata dall’Auditel sono diventate la stessa cosa, sinonimi. Ecco, ai social network sta succedendo la stessa cosa, l’audience, cioè il numero di like o di follower, e la condivisione stanno diventando la stessa cosa e questo apre la via a trucchi, opacità, eccesso di commercializzazione delle identità personali e sociali. Ricordate quando da piccoli ci dicevano che una buona azione va fatta a prescindere dalla sua ostentazione e dalla sua approvazione generale? Ecco, i social media, per salvarsi l’anima, dovrebbero in parte riscoprire, e noi con e dentro di loro, la distinzione tra condivisione e audience. In parte Istagram lo ha capito, togliendo la possibilità a tutti di vedere i miei “mi piace”, però il problema non è la ricerca dell’audience che è negli altri, il problema è la ricerca dell’audience che in me. Ma condividere è meglio che piacere.
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